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«Non sarò io a vincere, ma il discorso che servo»

J. Lacan, L’étourdit, 1972

Con il termine Scuola, che Lacan mutua dalla filosofia greca nell’Atto di fondazione del 1964, egli intende sia un luogo di rifugio, sia una base operativa «contro quello che già allora poteva essere chiamato disagio della civiltà[1]». Pertanto il Laboratorio si propone come luogo in cui ognuno nella propria singolarità e solitudine può mettersi all’opera affinché qualcosa dell’ordine del sapere possa prodursi, oltrepassando i limiti settari delle comunità analitiche, e un certo funzionamento gerarchico o accademico, come pure le passioni individuali e collettive che vi fanno da ostacolo.

Ora perché questo desiderio si dispieghi è, come in ogni analisi, necessario partire dall’istituzione di un luogo Altro, come luogo in cui la parola può circolare liberamente per farsi intendere, prima di tutto da chi parla. La messa in funzione di questo luogo terzo, l’Altra scena, come la chiamava Freud, per Lacan «designa sin dall’inizio la scena governata dal macchinario dell’inconscio[2]». È a partire dunque dall’amore per il sapere, dal transfert, che un legame fra analisti è possibile e che il rapporto al sapere può rinnovarsi ed emergere dall’effetto di quest’interazione.

Il Laboratorio Lacaniano di Psicanalisi nasce con l’intento di produrre un transfert di lavoro aperto ad accogliere gli effetti imprevedibili del desiderio che, per quanto indistruttibile, secondo Freud, o impossibile a dirsi, secondo Lacan, insiste nella catena significante.

Il Laboratorio Lacaniano di Psicanalisi è quindi un luogo di messa al lavoro, ove chi vi partecipa è confrontato con l’inconscio freudiano, ossia con un sapere che sfugge alla presa del Simbolico, e in cui chi parla non può sostenersi sulla padronanza delle conoscenze o della teoria codificata, lasciando nell’alienazione fascinatoria coloro che ascoltano, ma su di un sapere che si produce a patto che ciascuno metta in gioco il proprio desiderio, ossia la propria divisione soggettiva.

Lavorare sui testi di Freud, Lacan e qualche altro, è misurarsi con lo sforzo di leggere, sia nella teoria che nella clinica, ciò che insiste fra le righe, piuttosto che comprendere.

Se la psicanalisi freudiana, come affermava Lacan, vuole continuare a essere sovversiva spingendoci a confrontarci col Reale, con l’impossibile del desiderio, bisogna scommettere sull’inconscio e impegnarsi a mantenere vivi la divisione del soggetto e il valore della parola. Assoggettarsi all’inconscio e servire il suo discorso è l’invito di Lacan, che facciamo nostro, a realizzare un nuovo legame fra analisti «sbarazzato di qualsiasi necessità di gruppo[3]».

[1] J. Lacan, Atto di fondazione, 1964, in Altri Scritti, 2001, Einaudi, p. 238

[2] J. Lacan, La psicoanalisi vera, e la falsa, 1958, in Altri Scritti, 2001, Einaudi, p.167.

[3] J. Lacan, Lo stordito (L’étourdit), 1972, in Altri Scritti, 2001, Einaudi, p. 472

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