Su “Intervento sul transfert”

Il concetto di transfert nel testo di Jacques Lacan

 “Intervento sul transfert” del 1951

Rosa Armellino

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Per cogliere meglio l’importanza di questo testo occorre avere presente il dibattito psicoanalitico degli anni ’50 in cui s’inserisce l’intervento di Lacan sul transfert, con il quale Lacan si sforza di fare chiarezza sul funzionamento e sull’essenza della psico­analisi.

Intervenire sul transfert, significava, infatti, intervenire sul punto centrale della psicoanalisi, su quel punto che, come osserva Ida Macalpine nell’articolo «Lo sviluppo della traslazione[1]» del 1950, era il meno discusso e approfondito dalla comunità psicoanalitica. Se generale era l’accordo sul fatto che il transfert fosse il motore dell’analisi, non si davano spiegazioni teoriche sui fattori che lo provocavano. Gli psicoanalisti del tempo erano piuttosto impegnati in discussioni riguardanti le varia­zioni della tecnica, come il significato del setting analitico e la funzione dell’in­terpretazione, aspetti che risentivano degli studi freudiani sulla malinconia, delle scoperte della psicoanalisi infantile, soprattutto ad  opera della Klein, e dei tentativi di trattamento dei soggetti psicotici.

Nel 1938, lo psicoanalista inglese Glover aveva fatto un’indagine sulle pratiche psicoanalitiche facendo circolare dei questionari per raccogliere dei dati in proposito, avendo preso atto che la mancanza di apertura di discussione sulla tecnica derivava dalle angosce soggettive sull’ar­gomento. In particolare, dice la Macalpine, che nell’ar­ticolo fa una ricostruzione del concetto di transfert in Freud e nella letteratura psico­ana­litica, citando anche Glover, proprio sull’argomento transfert giocava un ruolo importante il fatto di voler allontanare il sospetto di usare un metodo da ipnotizzatori. Inoltre, altre questioni, che possiamo così riassumere, venivano poste su tappeto: il transfert è un fenomeno che sorge spontaneamente nel paziente[2] o è indotto dall’este­r­no in modo simile a quello in cui si instaura l’ipnosi? Il transfert riguarda l’intera relazione affettiva fra analista e paziente in analisi o solo le manifestazioni di “traslazione nevrotica”? La coazione a ripetere si riferisce a tutte le reazioni di traslazione o solo all’acting out?

Qualche mese prima del “Congresso degli psicoanalisti di lingua francese” del 1° novembre 1951, Daniel Lagache aveva letto alla British Psycho-Analytical Society la sua trattazione dal titolo “Alcuni aspetti della traslazione”[3] in cui ribadiva la centralità della manipolazione della traslazione nel metodo psicoanalitico, lamentandosi, allo stesso tempo, dell’ignoranza, da parte degli psicoanalisti, degli aspetti importanti del suo funzionamento. Lagache accetta, così, la sfida della psicologia comportamentale “molare” di Tolman al fine di consolidare i risultati propri della situazione psicoanalitica. Questo nuovo comportamentismo sosteneva, infatti, che la condotta umana è il risultato non della somma di entità separate, come voleva l’associazionismo classico, ma della totalità di risposte diverse, totalità che dà un significato a queste risposte e non le schiaccia sul piano della semplice acquisizione di risposte apprese nel tempo.

Non possiamo non intravedere in questo avvicinamento della psicoanalisi alla psicologia sperimentale quel processo che porterà la psicoanalisi, soprattutto americana, pressata dall’e­si­genza di dimostrare la propria scientificità, a trasformarsi in un vero e proprio sistema di sapere in cui lo stile “immaginativo-speculativo” e lo stile “critico-razionale”[4], tipici del modo di pro­­­­cedere freudiano, sono sostituiti da un rigido ingabbiamento di leggi ge­­nerali e  ipotesi esplicative.

Ritornando a Lagache, questi aveva individuato nell’effetto Zeigarnik una possibile soluzione alla difficoltà da parte della psicoanalisi a rendere conto della motivazione della ripetizione nella traslazione. La psicologia sperimentale si era trovata ad affrontare il problema dovendo spiegare le cause di un nuovo apprendimento, poiché le leggi dell’apprendimento, derivanti dalla ripetizione di risposte acquisite, non funzionano indipendentemente da quelle che esprimono l’effetto della motivazione. « Nel 1927 Zeigarnik – afferma Lagache –  dimostrò in via sperimentale che, a parità di condizioni, i compiti interrotti erano relativamente meglio ricordati e ripresi di nuovo con un maggiore entusiasmo rispetto ai compiti portati a termine.[…] L’effetto Zeigarnik mostra che la frustrazione che deriva dall’interruzione di un compito o dal suo insuccesso non sopprime la tensione della motivazione. […] La traslazione psicoanalitica non deriva, almeno in parte, da un meccanismo analogo, anche se l’intervallo di tempo fra l’interruzione e la ripresa dell’attività è ancora più grande?». La particolare motivazione che è in atto nel transfert è quindi derivante dalla ripetizione di bisogni infantili frustrati che non hanno potuto essere soddisfatti. Se è vero che Lagache cerca appoggio in queste teorie psicologiche, non possiamo negare, come tiene a precisare lo stesso Lacan nel suo intervento, che egli ha ben chiara la differenza delle due situazioni “sperimentali”, in special modo del ruolo dello psicoanalista nella produzione della traslazione e della definizione del campo psicoanalitico inteso come interazione fra analista e paziente, distinto da quello psicologico che riguarda l’interazione fra organismo e ambiente.

 

Con questa breve ricostruzione del dibattito abbiamo cercato di dare le coordinate per apprezzare l’intervento di Lacan sul tema del transfert, un intervento che per il modo stesso di proporsi si situa direttamente in media re, andando cioè al cuore dell’ar­gomento.

Come Lacan stesso ci indica nell’esergo del 1966 all’epoca del “Congresso detto  degli psicoanalisti di lingua romanza” egli si trovava ancora a fare i conti con il fatto  di “addomesticare le orecchie al termine soggetto”, cosa a cui gli psicoanalisti, dovevano essere già avvezzi da tempo. Essi, invece, stavano scivolando sulla brutta china di turare le orecchie riguardo il soggetto in e della psicoanalisi, riducendolo a qualcosa d’altro di cui la psicologia  si stava facendo paladina: l’intenzionalità della persona e le esigenze del suo io.

L’intervento di Lacan si inserisce, quindi, all’interno di uno “sterile[5]” dibattito psicoanalitico sulla tecnica che si trascinava da anni e che non faceva intravedere uscite chiarificatrici e risolutorie. L’ultima idea nuova sul transfert, quella proposta da Daniel Lagache, trovava sostegno sull’effetto Zeigarnik, fatto che, secondo Lacan, rilevava la mancanza di idee in campo psicoanalitico, decisamente “a corto di alibi”. Ciò che egli si propone di operare all’interno di questo dibattito ha il doppio scopo di chiudere una questione aperta, quella del ruolo di Freud nel caso Dora, e di riaprire il corso delle idee sullo studio del transfert, che da dopo Freud sembrava essersi prosciugato.

Non interessato ad approfondire il tema della polemica del collega Benassy che ritorce a Lagache il fatto che l’effetto Zeigarnik dipenda dal transfert più che causarlo, Lacan preferisce individuare l’errore diffuso di mettere in primo piano «nell’esperienza psicotecnica» «le disposizioni individuali» e non «il primato del rapporto fra soggetto e soggetto in tutte le manifestazioni dell’individuo in quanto umane».

Precisa così che l’esperienza psicoanalitica:

  1. «si  svolge tutt’intera in questo rapporto fra soggetto e soggetto», ossia non è riducibile ad una psicologia che si occupa dell’oggettivazione di certe proprietà dell’individuo.
  2. che in essa «il soggetto si costituisce, propriamente parlando, attraverso un discorso in cui la sola presenza dello psicoanalista apporta, prima di ogni intervento, la dimensione di dialogo».
  3. che essa si svolge, per riprendere l’osservazione che fa Dora nel suo trattamento con Freud, come il corso di un fiume non navigabile che fluisce, entro gli artifizi idraulici imposti dalla regola fondamentale, cosa che non gli impedisce di debordare,  «secondo le leggi di una gravita­zione che gli è propria e che si chiama verità». La verità è infatti il nome, dice Lacan, «di quel movimento ideale che il discorso introduce nella realtà». In altre parole «la psicoanalisi è un’esperienza dialettica» e che quando si parla di transfert è a questa nozione che bisogna riferirsi.

Prima di passare ad illustrare quanto detto con un esempio clinico, Lacan, presenta alcune sue osservazioni frutto del suo sforzo di elaborazione teorica a cui è stato spinto dalla responsabilità di psicoanalista sia rispetto al presente storico in cui vive, che rispetto al passato da cui riceve il compito di salvaguardare la tradizione del pensiero psicoanalitico.

Lacan difende la concezione della  “psicoanalisi come dialettica” non perché frutto della propria riflessione, ma perché misconoscere questa dimensione significa misconoscere il fatto che l’analisi è un’esperienza che si fonda sulle parole e non sui comportamenti. La psicoanalisi è apparentata molto più alla tradizione filosofica socratica, che fa della dialettica l’arte del dialogare, arte di cui il filosofo deve avere esperienza per far partorire la verità, che alla psicologia. Lacan segnala, inoltre, una pericolosa tendenza che conduceva la psicologia e con essa tutte le scienze dell’uomo a rima­neg­­­­giare, anche se controvoglia o a loro insaputa, le loro concezioni facendovi entrare le nozioni psicoanalitiche, mentre la psicoanalisi, dal suo canto, tendeva a psicologizzarsi, ossia a ritornare ad uno status quo ante la scoperta dell’inconscio.

La verità di fronte a cui, al contrario, Freud non è indietreggiato, assumendosene la responsabilità, è «che ci sono malattie che parlano, e di farci intendere la verità di ciò che dicono», verità a cui gli psicoanalisti dell’epoca di Lacan, in cui vi era una crisi delle istituzioni psicoanalitiche,  guardavano con timore. Questi nuovi professionisti ormai disorientati si sostenevano su ideali come la pietà e l’efficienza, che nulla avevano a che fare con la bussola del lavoro analitico, cercando, inoltre, rifugio in pratiche o teorie che cosificavano l’uomo più dello scientismo fisico.

Per Lacan, la psicoanalisi correva il grave pericolo, come ribadirà nel Discorso di Roma[6] del ’53, di promuovere «un nuovo tipo di alienazione dell’uomo» derivante dalla creazione di un tipo d’uomo più evoluto, l’homo psychologicus, da parte del sapere psicologico. La psicologia, infatti, presuppone un certo tipo di relazione dell’uomo con se stesso, che fa dell’io una funzione di sintesi, che per quanto minacciato dalla scoperta dell’inconscio, si impone per la sua capacità di ricompattarsi e di  riconquistare l’unità perduta, per il fatto di considerare l’inconscio semplice­mente come ciò che non è ancora cosciente. Il problema è se gli psicoanalisti si lasceranno affasci­nare da tutto ciò o se saranno capaci di ritrovare il senso autentico della scoperta freudiana ed il suo “valore di salvezza” senza ricadere nell’oscurantismo delle credenze psicologiche. (Pericolo tan­to maggiore quando si tratta di fare i conti con l’aldilà del principio del piacere, quella pulsione di morte presto assimilata all’aggressività comune al mondo animale).

Dopo queste considerazioni, Lacan passa alla dimostrazione della sua prospettiva teorica analiz­zando il caso di Dora. Questa scelta è dovuta al fatto che in esso Freud riconosce la parte che l’analista ha nel transfert e perché il caso è esposto «in forma di una serie di rovesciamenti dialettici».

L’accostamento, da parte di Lacan, del percorso analitico a quello compiuto dalla coscienza per giungere al sapere assoluto, così come è illustrato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito è sicuramente una novità nel discorso analitico dell’epoca. Ma Lacan, che aveva con altri intellettuali francesi seguito il corso di Alexandre Kojève su tale testo, non poteva non essere rimasto colpito dalla lettura di quest’opera di Hegel. In particolare i problemi di traduzione del termine Begierde,  parola chiave per descrivere il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza, reso con désir, ha generato un “tradimento” nella traduzione ricco di conseguenze non solo per la filosofia, ma come vedremo anche per il discorso psicoanalitico lacaniano. In italiano il termine è stato tradotto da A. Negri con appetito, concupiscenza per indicare, come nota Moroncini, «una pulsione del vivente già lavorata dalla coscienza e pronta, dunque, a trapassare nell’autocoscienza[7]», mentre desiderio implica un passaggio che non è programmato dalla natura, regolato e salvaguardato nella sua evoluzione da un apparato istintuale. Desiderio fa riferimento a tutt’altro campo semantico che nulla ha a che vedere con la naturalità di tale processo, dal momento che la parola latina desiderium  significa letteralmente « ’aver cessato di contemplare gli astri a scopi augurali’ o, in altri termini, l’essere stati privati dalla protezione delle stelle», come osserva ancora Moroncini. Il divenir coscienza-di-sé da parte della coscienza sensibile manifesta, nella versione di Kojève, tutta la sua tragicità per la mancanza di protezione degli astri che caratterizza la condizione umana.

Questa precisazione è importante per capire il senso di questo prestito filosofico. Per Hegel la coscienza deve percorrere una serie di tappe, per arrivare a cogliere la totalità dello spirito, e ciò attraverso la negazione, l’Aufhebung, delle singole posizioni, “figure”, dello spirito. Ogni “figura” non essendo altro nella propria singolarità che un’astrazione, se non inserita nel movimento generale dello spirito, e in apparente opposizione con le altre “figure”. L’Aufhebung permette invece di cogliere negli opposti la loro unità, perché negandone gli aspetti determinati, li conserva portandoli ad un livello di verità, facendo sì che vi sia riconosciuto il movimento dialettico, fatto di tesi, antitesi e sintesi, come struttura fondamentale della logicità del mondo. La coscienza, attraverso le tappe dell’autocoscienza e dello spirito, arriva, quindi, a riconoscere di essere già spirito, Geist,  anche nelle mere manifestazioni della coscienza sensibile, legate all’ hic et nunc della esperienza, ma che prima di questa lunga peregrinazione “non sapeva” di esserlo.

La psicoanalisi come “esperienza dialettica” significa dunque che essa al pari della dia­let­­­tica antica persegue la verità, ma che tale verità si dà nel riconoscimento di una logica “altra” interna al discorso, che lungi dall’essere un movimento in mettere, come avviene nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, ossia che istituisce un soggetto pienamente-cosciente-di-sé, si realizza in un movimento in levare, ove nessuna concilia­zione è possibile e nessuna Spaltung soggettiva ricucibile.

L’analisi del caso clinico di Dora è per Lacan l’esempio migliore per illustrare la cura in termini dialettici, poiché l’ordine del materiale raccolto da parte di Freud non è frutto di un artificio, ma è rispettoso del lavoro associativo della paziente. «Si  tratta – dice Lacan – di una scansione delle strutture in cui per il soggetto si trasmuta la verità, e che non riguardano soltanto la sua comprensione delle cose, ma la sua posizione in quanto soggetto di cui i suoi “oggetti” sono funzione» (p.211).

Inoltre nel caso di Dora, che ricordiamo durò solo tre mesi e fu interrotto nel dicembre 1899, Freud usa per la prima volta, come osserva Lacan, il termine di transfert e lo fa per definire «il concetto dell’ostacolo su cui l’analisi è venuta a rompersi». Questo diven­­ta motivo prezioso per ritornare alle fonti della psicoanalisi, al modo di operare di Freud, alla sua parte e al suo desiderio nella conduzione della cura, dando la possibilità di esplicitare quello che è chiamato transfert negativo, che si manifesta nel trasferire sull’analista sentimenti ambivalenti, ostili o d’amore, ed il suo effetto d’immobi­liz­­zare l’analisi[8].

È interessante notare che Lacan per illustrare la sua concezione del transfert rimane fedele al campo d’esperienza psicoanalitica, a differenza dei suoi colleghi psicoanalisti, che come abbiamo detto cercavano di trovare appoggio sulle altre scienze per dare fondamento ai concetti propri della loro pratica. Egli, invece, non si perde in disquisi­zioni teoriche, ma a partire dal materiale clinico dell’analisi di Dora ne fa una dimostrazione. Così come in geometria si usa fare per la dimostrazione di un teorema, Lacan si limita a fare del caso, in questo debitore di Spinoza e non solo di Hegel, un’esposizione «ordine geometrico demonstrata», in cui « cioè il concetto dell’esposizione è identico al progresso del soggetto, cioè alla realtà della cura» (p.211).

Scandendo il testo di Freud sul caso Dora, Lacan vi individua “gli sviluppi della verità”, ossia le produzioni inconsce di Dora, e i rispettivi “rovesciamenti dialettici”, ai quali corrispondono gli interventi di Freud per facilitare il lavoro di associazione. Il progresso della cura si interrompe, osserva Lacan, a causa della errata manovra del transfert da parte di Freud, il quale di fronte all’affascinato attaccamento di Dora per la Sig.ra K, non vi riconosce la strada intrapresa da Dora, attraverso cui la Sig.ra K , non come individuo, ma in quanto oggetto psichico, l’avrebbe condotta a fare luce sul mistero della propria femminilità corporea. Per Lacan ciò che fa da ostacolo alla direzione intrapresa da Dora è in questo caso il contro-transfert di Freud, una difficoltà che egli stesso ammette nel 1923, per il fatto di aver agito col suo pre­giudizio nei confronti dell’omo­ses­­sualità femminile,  condividendo certe idee dell’epoca che vedevano quale uni­ver­sale destino femminile il trionfo dell’amore matrimoniale, perdendo così di mira il suo ruolo di traghettatore dell’Acheronte. Freud, quindi, operando su un piano immaginario, quello delle credenze dell’io e dei sentimenti ambivalenti, abbandona la rotta simbolica dell’analisi del materiale inconscio con la conseguente reazione d’odio da parte di Dora che con un breve preavviso gli dà il benservito.

Il transfert all’interno di questo processo soggettivo non è null’altro, afferma Lacan, che «l’ap­pa­rizione, a un certo momento di stagnazione della dialettica analitica, dei modi permanenti secondo i quali esso [il soggetto] costituisce i propri oggetti». Inter­­pretare il transfert significa riempire «con un’illusione il vuoto di questo punto morto», cioè intervenire per rilanciare il processo[9]. Se è vero che all’inizio della psicoanalisi non c’è la scoperta dell’inconscio, ma il transfert che lo attualizza con tutto quello che di sessuale implica, l’analista, col suo desiderio, è responsabile del mantenere aperta la porta dell’inconscio. Egli, dice Lacan, deve farsi causa della produzione dell’inconscio e dei suoi effetti soggettivi attraverso «un non-agire positivo in vista dell’ortodram­ma­tiz­zazione della soggettività del paziente», un non agire che è cosa ben diversa dall’as­­sumere un comportamento ingessato e innaturale al fine di mantenere la cosiddetta “sterilità” della situazione analitica[10].

Perché, infine, Lacan sceglie di parlare proprio del caso di Dora? Esso appare privi­le­giato, dice Lacan, in quanto essendo un caso di isteria  l’io di Dora, il suo moi, offre uno schermo abbastanza trasparente, ossia una bassa soglia di separazione fra inconscio e conscio, o «per meglio dire fra il discorso analitico e la parola [mot] del sintomo». Il transfert può, quindi, essere evidenziato più dettagliatamente nel corso della cura come momento in cui si realizza il rovesciamento dialettico, ossia il lavoro dell’Aufhebung, del superamento degli ostacoli, delle opposizioni che il flusso delle libere associazioni incontra nel trattamento psicoanalitico a causa degli ostacoli che tale flusso pone a se stesso. L’inconscio, che in questo appare simile all’astuzia della ragione hegeliana, procede nel suo percorso di fluidificazione  causandovi delle precipitazioni, delle cristallizzazioni, che lo irretiscono  solidificandolo in una forma (le identificazioni), con effetti che a loro volta vanno disciolti, perché si liberi il perpetuo divenire del soggetto. Ma l’inconscio, quello scoperto da Freud, diversamente da quello dei filosofi e dal destino fenomenologico che Hegel gli attribuisce, non si dà mai in presenza, non si afferma mai come spirito in sé e per sé, autotrasparente, pienamente realizzato in una datità immobile o in una pura spiritualità, ma secondo Lacan, sempre come sottrazione, perenne mancare a se stesso,  manque-à-être.

 

In questo intervento emerge una concezione del transfert in cui, come ci fa notare Erik Porge[11], è privilegiata la dimensione simbolica. In questa fase esso coincide con l’atto di parola, distinguendosi da quella dimensione immaginaria che prevarrebbe nell’anali­si delle difese e che condurrebbe all’identificazione con gli ideali dell’analista. Lacan legge, invece, il caso di Dora in termini di capovolgimenti dialettici, ossia  come il lavo­ro in cui è in opera il transfert inteso come spostamento di elementi inconsci su altri elementi. Così come Freud ci ha insegnato nell’interpretazione dei sogni, i pensieri inconsci, relativi alla realizzazione del desiderio, si trasferiscono, si spostano su altri elementi quali i residui diurni, allo stesso modo le associazioni di Dora, grazie alle manovre del transfert, raggiungono una significazione che è funzione della parola che viene dall’Altro.

L’interpretazione del transfert per Lacan è una manovra che non ha nulla a che fare con un’ermeneutica, una donazione di senso, ma opera sui significanti, su ciò che in essi risuona del desiderio inconscio del soggetto. Mantenere aperta la via della significa­zione del desiderio nel processo di costruzione che il paziente fa della propria storia porta alla risoluzione del sintomo, ma allo stesso tempo maggiore è la vicinanza alla significazione inconscia del sintomo più grande è la resistenza. Tale resistenza, interna al processo, riguarda solo il nucleo patogeno, anche se si trasferisce, attualizzandosi, sulla persona dell’analista. Pertanto l’interpretazione, l’intervento sul transfert, come per i sogni, non deve confondersi con l’applicazione, o trasferimento, da parte dell’analista, di un sapere esterno alle associazioni del soggetto. È proprio quest’errore che ha condotto Freud stesso con l’uomo dei topi a fornire un sapere durante la cura. Accadeva, cioè, che nel momento in cui veniva in primo piano il transfert e si interrom­peva il processo di memorazione, l’analista forniva un sapere, un’interpretazione preconfezionata che in un primo tempo era rifiutata, ma poi questi superava la resistenza opposta alla sua assunzione e finalmente si persuadeva della veracità dell’interpretazione data anticipatamente dall’analista. Tale sapere non provenendo da ciò che c’è d’imprevisto nel discorso del soggetto, dai significanti del suo desiderio inconscio alimentano, più che dissipare, la resistenza, che di colpo è tutta sul versante dell’io dello psicoanalista, sui suoi pre-giudizi, in quanto egli, dalla sua posizione, invece di fare da specchio vuoto su cui far riflettere, “speculare” il paziente, assume la forma di un quadro che incornicia una tela già bella e dipinta, che provenendo dall’altro immaginario non può che innescare una lotta o un’adulazione per quello che d’immaginario ed in parte rassicurante[12] viene proposto. Lasciare vuoto questo posto, non fornire alcuna immagine riflessa, è fare un intervento sul transfert che lasci al paziente costruire e proiettare sullo schermo i suoi pensieri per dare forma non ad una immagine, ma ad un discorso che si sostiene su di una mancanza e che gira attorno a ciò che di più intimo e non specularizzabile egli abbia. Oggetto causa del desiderio che Lacan nominerà nel seminario X sull’angoscia (1962-1963): oggetto piccolo a.

 

 

Napoli, giugno 2013

 


[1] I. Macalpine “The development of the transference”, in Psychoanalytical Quarterly, 19, 1950, tradotto nel testo a cura di C. Genovese, Setting e processo psicoanalitico. Saggi sulla teoria della tecnica, Raffaello Cortina Editore, 1988, Milano.

[2] «L’analizzando – dice la Macalpine – ha  in sé, in varia misura, una capacità intrinseca, una disposizione a formare delle traslazioni, e questa disposizione viene a trovarsi di fronte a un quid che la trasforma in qualcosa di reale», in op. cit., p. 92.

[3] L’intervento di Lagache pubblicato nell’International Journal of Pscho-Analysis, 34, 1953, è tradotto in op. cit., nota 1.

[4] Rimandiamo all’articolo “La strega e i suoi destini. Freud, Rapaport e la critica della psicoanalisi statunitense alla metapsicologia”, in Fabozzi, P.,  Ortu F., Al di là della metapsicologia, Il Pensiero scientifico Editore, Roma, 1996.

[5] “Sterile” era il termine con cui era definito il ruolo dell’analista nel transfert e la situazione analitica paragonata in questo modo ad una camera operatoria. Vedi a proposito l’articolo di Alice Balint, Michael Balint, 1939, “On Transference and Counter-Transference”, in  Int. J. Psycho-Anal., 20:223-230 (IJP).

[6] Vedi il “Discorso di Roma”, in J. Lacan, Il mito individuale del nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1986, p. 38.

[7] Rimandiamo al bel saggio su J. Lacan “Teoria del discorso”, in B. Moroncini, Il discorso e la cenere, 1988, Guida, Napoli.

[8] Rimandiamo all’articolo citato di D. Lagache, p.127 e ss., da cui riportiamo questa citazione: «L’effetto della traslazione è negativo se il paziente si basa su modelli che sono incompatibili con l’apprendimento della regola fondamentale. Tale definizione corrisponde alla definizione classica laddove si sia rilevata la relazione tra ostilità, narcisismo e difesa dell’Io. La traslazione negativa si esprime nella difesa e limitazione dell’Io, che cerca la propria sicurezza nell’utilizzazione di soluzioni apprese. L’importanza generale di una traslazione negativa è la riduzione delle tensioni».

[9] In questa indicazione ci sembra di cogliere quello che Lacan definirà più tardi nel seminario VIII, dopo aver introdotto l’anno prima das Ding, che l’inconscio non è un dato di partenza, un dato di fatto, ma una creazione attorno a un vuoto, che si dà come tyche, evento fra i due, come terzo fra analizzante ed analista che non formano una coppia, pena la caduta in una relazione controtransferale.

[10] Il riferimento è all’articolo già citato di Alice e Michael Balint, i quali a proposito della “sterilità” analitica e i conseguenti atteggiamenti degli analisti, si domandano ironicamente se è poi mai possibile operare un transfert su oggetti, ormai non più soggetti, inanimati!

[11] E. Porge, Jacques Lacan, un psychanalyste, Eres, 2000, Paris, p. 253 e seguenti.

[12] A questo proposito si veda l’interpretazione da controtransfert che Ella Sharpe dà alla sua paziente Margaret Little. Ci riferiamo all’articolo della Little “Countertransference and the patient’s response to it”(IJP 32, 1951) che Lacan commenta nel I Seminario (cap.III, p.37 e ssg.), per osservare come un tale intervento ha come effetto quello di ricondurre «il soggetto all’unità del proprio io», facendo uscire di colpo la paziente dalla confusione pseudo-maniacale con cui era arrivata alla seduta dopo aver parlato alla radio. Tuttavia, tale interpretazione non favorisce alcun materiale clinico rilevante a sostegno della verità di tale interpretazione. Con la conseguenza che per la Little ci vorrà un’altra analisi, con D.W.Winnicott, per elaborare quanto le era accaduto.

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