Amalia Mele – Dalla parte del soggetto: il rapporto Lacan-Foucault

Dalla parte del soggetto: il rapporto Lacan-Foucault[1]

Amalia Mele

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L’accostamento tra Lacan e Foucault ha un esito “polemico” scontato se si resta sul piano strettamente psicoanalitico. Per Foucault Lacan è un “liberatore della psicoanalisi” che non si è emancipato dal freudismo. Sul piano della criminologia potrebbero però esistere tra i due autori più affinità che divergenze[2].

Cercherò di mostrare i possibili punti di contatto seguendo due linee di pensiero, cronologicamente differenti, che in linea ipotetica potrebbero indicare una gravitazione malgré soi di Foucault verso Lacan.

Il primo filone, meglio indagato, fa riferimento al testo che Lacan scrisse nel 1950 in collaborazione con Michel Cénac: Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia[3]. Nel testo Lacan menziona a più riprese i lavori classici di August Aichhorn Verwahrloste Jugend (Gioventù abbandonata), che furono pubblicati con una prefazione di Freud, e altri lavori psicoanalitici come quello di Kate Friedlander.

Per Lacan, che non si è occupato a lungo di criminologia (sebbene la sua carriera psichiatrica sia cominciata proprio con la cura di un caso di tentato omicidio, il caso Aimée, e con il commento del doppio crimine delle sorelle Papin[4]), la criminologia, che non è pseudoscienza (come per Foucault),  si divide in due campi. Il primo è il campo dell’insieme dei discorsi tenuti dalla psichiatria tradizionale. Questi discorsi sono oggetto in parte della sua critica. Il secondo è un campo potenziale: è un insieme di oggetti reali e simbolici sui quali la psicoanalisi è chiamata a tenere un discorso vero.

Il crimine non è un oggetto sociologico totale nel senso di Marcel Mauss, poiché la nozione di responsabilità, l’istanza ritenuta colpevole, l’individuo o il gruppo, la punizione  e l’ammissione  soggettiva che dona senso alla punizione e alla pena, variano con le società, cambiano secondo le istituzioni e le credenze (nel saggio Lacan dà una descrizione pungente del comportamento di un gruppo di militari che celebrano un giorno da leone violentando una o più donne in presenza di un maschio anziano, preventivamente ridotto all’impotenza: il crimine è reale benché realizzato sul piano simbolico in forma edipica, ma la dimensione eroica del gesto occulta la responsabilità individuale nel gruppo). Così Lacan ricorda in questo saggio lo iato che separa la punizione dell’incesto nelle nostre società moderne (a codice penale) dall’autopunizione che riunisce nella stessa persona il criminale e il giudice, messa in rilevo dal lavoro di Malinowski alle isole Trobriand sull’incesto tra cugini matrilineari. Lacan afferma negli anni ’50 la prospettiva generale di una relatività sociologica della psicoanalisi (e del suo oggetto), sostenendo comunque che la sua esperienza ci mette sulla strada di un operatore universale che si esprime «in tensioni relazionali che sembrano giocare in ogni società una funzione  basale».

Il Lacan degli anni ’50, che affonda le sue radici in quello del 1938 dei Complessi familiari[5], non crede all’universalismo dell’Edipo, mentre accorda una posizione universalista al super-io. Lo psicopatico sembrerebbe condannato ad abitare una prigione superegoica, una solitudine narcisistica governata dal regime dell’immagine che fa legge. La lettura così operata da Lacan del super-io consente di afferrare la contemporaneità della clinica del caso e della clinica sociale, e offre una soluzione epistemologica al nodo che tanto imbarazza gli antropologi, quello del passaggio dalla natura alla cultura. Lacan coglie qui gli effetti dell’avvento della famiglia coniugale, nuova declinazione del legame sociale che si fa detonatore del super-io non dell’Edipo, rivelando il binomio infernale operatore edipico degradato – super-io insopportabile. La potenza captatrice del gruppo familiare è difatti tanto più forte quanto più la potenza sociale s’indebolisce.

Secondo questo “primo” Lacan tutti i primi legami sociali si elaborano nel registro dell’immaginario attraverso questa immagine primeva nella quale il soggetto riconosce l’unità del proprio corpo (immagine ceppo dello stadio dello specchio). Il soggetto entra con questa imago fondatrice, percepita e introiettata in quei primi momenti in cui la presenza dell’altro è la condizione stessa della sua vita (sul piano biologico e su quello psichico), in una relazione di dipendenza assoluta (una sorta di servitù immaginaria dell’immagine che fa legge, comanda)[6].

Levi-Strauss nell’introduzione al testo di Marcel Mauss Sociologie et anthropologie scrive: «I comportamenti individuali normali non sono mai, di per se stessi, simbolici: essi sono gli elementi a partire dai quali prende forma un sistema simbolico, che non può essere se non collettivo. Solo i comportamenti anormali, in quanto avulsi dal contesto sociale e in qualche modo abbandonati a se stessi, realizzano, sul piano individuale,  l’illusione  di un simbolismo  autonomo»[7].

L’insieme delle regole simboliche è utilizzato dall’individuo normale per condotte reali, dallo psicopatico per condotte irreali, che non sono tuttavia fuori del simbolico perché esprimono in un «simbolismo parcellare» (Mauss), ma in un simbolismo comunque, una ricerca di soluzione alla propria sofferenza con il passaggio all’atto.

Il terzo paragrafo del testo di Lacan del 1950 condensa in un sottotitolo il senso della posizione teorica sin qui espressa: «Del crimine che esprime il simbolismo del superio come istanza psicopatologica: se la psicoanalisi irrealizza il crimine, non disumanizza il criminale»[8].

Forse è qui il punto di contatto più forte con Foucault (che d’altro canto ha nei confronti della criminologia una posizione fortemente critica, attribuendole un carattere forzatamente utilitario, in quanto il discorso della criminologia fornisce un alibi alle misure di segregazione imposte agli imputati): il rapporto tra il colpevole  e il suo atto.

Per dipanare questo nodo occorre una teoria del soggetto che però è assente in psichiatria.  Cosa vuol dirci Lacan quando afferma che: «la psicoanalisi risolve un dilemma della teoria criminologica: nell’irrealizzare il crimine, non disumanizza il criminale. Più ancora, con la molla del transfert essa permette quell’ingresso nel mondo immaginario del criminale che può essere per lui la porta aperta sul reale[9]»? Questa proposizione di Lacan rimanda alle questioni della causa e del desiderio. In effetti l’irrealizzato del crimine sarà dell’ordine del non realizzato, dell’altra scena dove si posiziona il desiderio. L’inconscio consiste in questa beanza che non può dirsi che per la legge del significante; è in ciò che il soggetto può umanizzarsi, dicendo qualcosa del suo atto venuto a rispondere a questo x del desiderio.

Questa ricerca del come si diventa soggetti è dunque patrimonio comune di Lacan e di Foucault. Può dirsi perfettamente complementare alla posizione di Lacan l’idea di Foucault che la criminologia iperrealizzi il crimine per catturarvi la vita del colpevole. Categoria esemplificativa di questo nodo potere-sapere della psichiatria del XIX secolo è l’entità fittizia di crimine-follia individuata dal filosofo francese nella categoria psichiatrica di monomania omicida[10]. Si tratta del grado zero della follia ossia di crimini gravi (omicidi efferati con strane crudeltà) non preceduti, accompagnati o seguiti dai sintomi di follia. Si realizza per Foucault, con questa categoria nosografica, una psichiatrizzazione dall’alto della delinquenza: la psichiatria penetra nel sistema penale non attraverso la zona confusa del disordine quotidiano ma attraverso il grande evento criminale che ha per oggetto crimini di famiglia o di vicinato: genitori che uccidono la progenie, figli che uccidono i genitori o i protettori, servitori che uccidono i padroni. Questi crimini mettono a confronto individui appartenenti a generazioni differenti. La coppia bambino-adulto, adolescente-adulto è quasi sempre presente.

Appaiono crimini senza ragione, senza interesse né passione o motivo, per quanto delirante. Si tratta dunque di un’alienazione che non avrebbe sintomi diversi dal crimine stesso, e che potrebbe scomparire una volta che questo sia stato commesso.  Per Foucault il crimine è diventato in questo grado epocale una posta in gioco rilevante, in quanto modalità di potere da garantire e giustificare, e non in quanto campo di conoscenza da conquistare: la psichiatria si candida così a diventare una forma di igiene pubblica piuttosto che una nuova razionalità medica. Qui Foucault intravede lo stesso rischio evidenziato da Lacan con quella che lui definisce «concezione sanitaria della penologia», che all’interno delle pratiche e dei saperi sopprime la responsabilità del soggetto rendendo possibile una colpevolezza oggettiva.

Un secondo punto di contatto tra Foucault e Lacan fa riferimento a un momento teorico successivo di Lacan, intorno agli anni Sessanta, anni in cui Lacan introduce la questione della  jouissance.[11]

Di certo vi furono dei transiti di Foucault nei luoghi lacaniani dei Seminari. Lacan a sua volta era presente alla conferenza di Foucault Che cosa è un autore? del 1969 (stesso anno del Seminario lacaniano Il rovescio della psicoanalisi), nella quale Foucault designerà la psicoanalisi come un discorso. Lacan, intervenendo in quell’occasione a proposito delle critiche formulate allo strutturalismo, sottolineò come quest’ultimo non predicasse tanto la negazione del soggetto quanto piuttosto la dipendenza di questi dalla catena significante. Foucault, al contrario, opererà in direzione di uno scivolamento dalla nozione di dipendenza del soggetto alla nozione di sparizione del soggetto. Il tema della sparizione è legata in Foucault ai concetti di anonimato, fuori, cancellazione, divenire altro, tentativi di distaccarsi da sé, che si modulano differentemente nelle sue opere a seconda delle epoche. Ora la sparizione del soggetto è sicuramente qualcosa che punta verso la  jouissance.

Foucault sembra far suo questo concetto di Lacan sia nella ricerca di una continuità tra la sua vita e la sua ricerca, ma anche in alcuni luoghi del suo pensiero, intuendo ad esempio un fattore-godimento[12] per gli anormali e per gli infami. Un godimento che, in queste singolarità, si dà come zona di movimento tra un interno e un esterno e non s’inscrive nel vero ordine discorsivo ma è catturato dalla passione per la verità. Il luogo passionale della verità diventa il meccanismo di produzione dell’evento criminoso.

Seguiamo Foucault nei suoi movimenti di avvicinamento agli “anormali” (Gli Anormali è il corso tenuto al Collège de France nel 1975-1976). Il primo riguarda l’attenzione per gli “infami”, per le teste vuote della follia, per le esistenze vagabonde e incongrue che ricevono menzione solo nei testi della medicina e della psichiatria. Il Corso sugli Anormali procede per casi individuali (il catalogo delle singolarità sarà un tratto tipico di Foucault che è funzionale a mostrare il capolinea di un guasto macroscopico, sociale): il delitto totalmente gratuito di Henriette Cornier, che taglia la testa di una bambina appena conosciuta, la vicenda processuale dell’ermafrodito di Rouen, che nel 1601 è condannato per aver sposato una donna pur avendo un sesso femminile ed altri casi, sono presentati in racconti che alternano sapientemente indizi e rivelazioni (inevitabile il paragone con i casi clinici freudiani).

Il secondo movimento con il quale Foucault avvicina la questione della follia dal lato del soggetto è in un testo scritto in prima persona da un folle, in cui il nome figura come un marchio: Moi, Pierre Rivière[13]. Testo steso in prigione sotto forma di “memorie”, ma non di confessione, dal momento che il giovane contadino normanno aveva già in animo di scrivere della sua vita, e magari persino del suo crimine, prim’ancora di compiere il delitto. Foucault osserverà a tal proposito: «Nel comportamento di Rivière, memoria e delitto non si ordinano secondo una successione cronologica semplice: crimine poi racconto. Il testo non riferisce il gesto; ma dall’uno all’altro c’è tutta una trama di relazioni: essi si sostengono, si portano l’un l’altro, secondo rapporti che non hanno cessato d’altra parte di modificarsi».

Pierre Rivière intercetta con la sua storia un massacro che ha già da sempre il suo testo («Le battaglie – scrive Foucault – imprimono il marchio della storia ai massacri senza nome»). Clinica sociale e clinica individuale sono qui allo zenith di una totale coincidenza. Pierre racconta, dà le sue motivazioni: decise di uccidere per sfidare la legge, per innalzarsi al di sopra degli altri e salvare il proprio padre da una tirannia, poco importa se il tiranno abbia un volto familiare, in questo caso di una donna, la madre; si tratta comunque di un’infamia che tenta di raggiungere il visibile, che cerca l’incontro con la storia, il gesto glorioso che riscatti l’umiliazione paterna. Il popolo muto delle campagne del XIX secolo, gli esclusi dal gioco sociale pongono un interrogativo sui limiti della natura umana. Che qualcosa, almeno una volta vada al di là del possibile, superi il limite. Sii glorioso, dice a suo padre Pierre Rivière; una volta almeno va più lontano o più in alto. E ai suoi cavalli: fate ciò che nessuno ha mai fatto. Un debito simbolico smisurato diventa per Pierre una forma di jouissance (è caratteristica del debito simbolico di essere per definizione dissipativo: la jouissance non si accumula).

La lucida follia di Pierre Rivière e la sua eversione figurano una linea inestricabile che sconvolge e muta posto alle normali composizioni del godimento. La cosa di cui gode corre carsicamente al di sotto della legge, che la copre e la nasconde. Pierre Rivière dispiega il gioco dei retroscena e delle connessioni storiche e causali, delle sovradeterminazioni e del simbolico, ma la sua singolarità somatica costituisce un punto di sprofondamento dove il sistema della realtà implode attirata dal delirio come da un punto di azzeramento. A cosa mira il gesto di Pierre Rivière secondo Foucault? In maniera violenta vuole incalzare una verità. Una verità buia, cieca, oscura da cui il folle attinge una passione incontrollabile come nello splendore di una visione. Il processo di soggettivazione di Pierre Rivière s’inaugura tutto in questo rapporto, che la pratica psichiatrica tenterà di affossare nei movimenti barcollanti di un demente o di un degenerato. Il suo passaggio all’atto ha tutti i caratteri di un passaggio alla verità.

Nella verità è in questione l’incontro con il reale. È in questo senso che Lacan dice che la verità è straniera, inumana, che la sorte di ognuno è di rifiutarne il volto orribile.  Di colpo è come se la verità parlasse: Moi la vérité, je parle… dice Lacan nella Chose freudienne[14], intendendo con ciò che la verità parla nelle formazioni dell’inconscio e nei sintomi, e che la verità dei sintomi nevrotici è di avere la verità come causa. Nel Seminario Il rovescio della psicoanalisi Lacan, interrogandosi però sulla possibilità di amare la verità, ironizza e mette in guardia da un amore che non condurrebbe che alle manifestazioni sintomatiche, non rinuncerebbe al godimento che esse procurano, ancorandosi così nell’impotenza. La posizione riguardo alla verità condiziona dunque la posizione verso la jouissance in un rapporto di parentela, che Lacan non esiterà a definire come «sororale», enunciandolo così: «Cosa può voler dire il fatto che amando la verità si cada in un sistema così palesemente sintomatico? Ciò che qui si designa, ponendosi come residuo dell’effetto di linguaggio, come ciò che fa sì che l’effetto di linguaggio non sottragga al godere se non ciò che l’ultima volta enunciavo come entropia, come più-di-godere, è un qualcosa che non si vede – la verità come al di fuori del discorso, ebbene, è la sorella di questo godimento proibito[15]».

 

 

 



[1]Comunicazione presentata alla Giornata di studio delle psicosi dell’Association Lacanienne Internationale Dei delitti e delle pene, Roma 19-21 ottobre 2007

[2] Cfr. Brodeur J.P., Lacan, Foucault et la criminologie, in Le pouvoir chez Lacan et Foucault la célibataire Revue de psychanalyse, clinique, logique, politique 9, 2004 pp. 153-163.

[3] Lacan J., Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse en criminologie (1950), in Écrits (1966), Paris, Seuil, 1999, pp. 124-149.

[4] Lacan J., De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité, Paris, Seuil, 1975.

[5]Lacan J., Les complexes familaux, Paris, Navarin, 1984.

[6]Zafiropoulos M., Lacan et les sciences sociales, Paris, PUF, 2001.

[7]Lévi-Strauss C., «Introduction à l’œuvre de M.Mauss», in Marcel Mauss, Sociologie et antropologie, Paris, PUF, 1950.

[8] Lacan J., Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse en criminologie, cit. pag.128

[9] Ivi, pag. 134

[10]Foucault M., Les anormaux. Cours au Collège de France. 1974-1975, Seuil/Gallimard 1999.

[11]Concetto introdotto in campo psicoanalitico da Lacan e che in qualche modo, collocandosi al di là del freudiano principio del piacere, tenta di rendere ragione della cattura dei desideri, dei piaceri e dei dispiaceri nella rete linguistica dei sistemi simbolici. All’idea connessa alla scarica del principio del piacere si oppone qui una soddisfazione connessa al senso. Lacan introduce a tal proposito un gioco di parole, j’ouis-sens (sento-senso), che rompe con l’idea mitica di un animale monadico che gode da solo senza parole, senza la dimensione radicalmente intersoggettiva del linguaggio (Cfr. Chemama R., Vandermesch B., Dizionario di psicoanalisi, edizione italiana a cura di Carlo Albarello e del laboratorio freudiano per la formazione degli psicoterapeuti, Gremese, Roma 2004).

[12] Cfr. Putino A., Fattore godimento. L‘infame e l’anormale secondo Michel Foucault», in Rosario Conforti (a cura di), La psicoanalisi tra scienze e umane e neuroscienze. Storia, alleanze, conflitti, Roma, Rubettino, 2006, pp. 589-599.

[13]Foucault M., Moi Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma soeur et mon frère…Un cas  de parricide au  XIXe  siècle, Gallimard, Paris 1994.

[14]Lacan J., La chose freudienne (1955), in in Écrits (1966), Paris, Seuil, 1999, pp. 398-433.

15 Lacan J., Le Séminaire livre XVII, L’envers de la psychanalyse, Paris, Seuil, 1991, pag.76.

 

 

 

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