Charles Melman – Le strutture lacaniane delle psicosi 2

Le strutture lacaniane delle psicosi

 

Charles Melman – psichiatra, psicanalista, Parigi

Napoli, 29-30 maggio 2009

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30.05.2009

 

Dott. Mario Bottone: Riprendiamo la discussione con il dottor Melman dopo quella di ieri pomeriggio. Come anticipato dal dottor Melman, oggi ci parlerà della forclusione del Nome del Padre in rapporto alla contemporaneità.

 

Dott. Charles Melman: Grazie. Ieri vi ho spesso parlato della questione del limite, da dove sorge però per noi questo limite, ciò che per noi fa interdetto, che organizza due spazi differenti? L’uno è quello della rappresentazione, che ha diritto ad essere rappresentato; l’altro, che è quello di ciò che non ha accesso al campo della rappresentazione, che dunque isola un altro spazio, comandato da un’altra geometria, diversa da quella della rap-presentazione, e che è ciò che Lacan chiama il Reale. La questione che ci si presenta è: cos’è che organizza questo limite, fra ciò che ha diritto al campo della rappresentazione e ciò che deve essere scartato, rimosso, e che si trova rigettato nel Reale? Secondo me, qui c’è una nozione molto interessante, che gli antropologi chiamano col nome di diritto naturale. In effetti, gli antropologi hanno osservato che ciò che caratterizza la specie umana nella categoria animale, è che dappertutto un gruppo umano distingue ciò che è bene e ciò che è male, vale a dire ciò che è ammesso nel campo della rappresentazione e ciò che deve essere rigettato.

Ogni gruppo umano fa distinzione fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, e siccome questo tipo di diritto non ha alcun autore, che s’imponga universalmente, la Scolastica, in particolare san Tommaso, è stata portata a riconoscere che questo rapporto al diritto naturale, naturale in quanto precedente la religione, è un diritto che non dipende dalla rivelazione: non c’è mai stato un profeta  universale che venisse a dire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Dunque gli Scolastici hanno lavorato molto con san Tommaso questa questione del diritto naturale, con l’idea che Dio avesse messo in ciascuno la possibilità di fare questa distinzione, ma i filosofi fanno a meno di questo riferimento a Dio. Quando parlo di filosofi parlo in particolare di un filosofo che anche lui è venuto da Vienna e poi è andato in America –  stiamo parlando della seconda guerra mondiale –  che si chiama Leo Strauss. Egli ha fatto dei corsi sul diritto naturale e la storia[1].

Quando si è psicanalista e lacaniano, si comprende subito che questa distinzione universale nella specie umana fra ciò che è un bene e ciò che deve essere rigettato, fra il giusto e l’ingiusto, viene dal rapporto universale dell’umanità con il linguaggio. Il meccanismo del significante, infatti, è tale che esso produce nel suo proprio movimento la distinzione fra ciò che deve essere rigettato, lo scarto, l’escremento, la spazzatura – anche quando si accumulano nelle nostre strade – e ciò, che, al contrario, ha posto nel campo delle rappresentazioni. Quando leggete la raccolta di Lacan che si chiama Scritti, vedete che comincia con una lezione del suo seminario che si chiama La lettera rubata[2], in cui mostra che nel meccanismo stesso della catena significante, dal momento in cui si ritagliano dalla catena sonora delle unità suscettibili di costituire dei fonemi, ci sono delle impossibilità meccaniche, che fanno sì che questo o quell’elemento letterale, non può venire in quel momento nella catena e deve essere rigettato. Il suo accesso in quel momento non è possibile meccanicamente. C’è proprio un’organizzazione fisiologica propria del linguaggio, che distingue ciò che ha il diritto d’esistere nel campo della rappresentazione e di ciò che deve essere rigettato. Subito osserverete che ciò che in questo modo è rigettato, è primordialmente una lettera. Conoscete quel meraviglioso articolo di Freud sulla Verneinung, La negazione[3], che racconta come nel bambino c’è ciò che egli ammette, ciò che accetta d’incorporare, e poi ciò che rigetta, ossia quel meccanismo della Bejahung, vale a dire ciò a cui dice sì, quello che introietta, e poi quello a cui dice no, che vomita.

Prendiamo l’immagine, che vale quel che vale, del problema dei bambini che vomitano e che provocano sempre la disperazione delle madri, perché esse danno il buon latte e non comprendono perché il bebé lo sputa, lo vomita.

Il paradosso è questo e lo trovate nello scritto di Freud sulla negazione, quando un soggetto, un paziente dice a proposito di un pensiero che gli è venuto: «No, certamente non sto pensando a mia madre», vale a dire sta presentando questo pensiero nella forma del rigetto, non vuole che questa madre figuri nel campo della rappresentazione. Supponiamo che abbia avuto un sogno dove c’era una donna che lo perseguitava e pure lui [perseguitava lei] e allora sul lettino dice «Ah, no, non sto pensando a mia madre”, tutti non solo lo psicanalista, tutti, oggi, capiscono che è proprio alla madre che sta pensando. Vale a dire che è la denegazione, che conferisce la propria autenticità, nella misura in cui questo pensiero veniva dal Reale, è il pensiero che non bisogna avere, interdetto, aldilà del limite. Ebbene, questo pensiero, che tutti intendono essere quello vero, non può essere ammesso nel campo della rappresentazione se non tramite questa denegazione.

Cosa accade quando ciò che è rifiutato dal campo della rappresentazione e viene rigettato nel campo del Reale è il sessuale? Ci sono due conseguenze immediate, ciò che è rigettato così nel Reale, diventa il significato di tutto ciò che è  condotto nel campo delle rappresen-tazioni, altrimenti detto, ritroviamo la nozione freudiana di libido.

Vale a dire che i nostri pensieri sono ordinati dalla sessualità, anche le nostre osservazioni più intellettuali e più concettuali; poi un’altra conseguenza, cioè che la sessualità ci appare barrata e tutto succede come se per aver accesso alla sessualità ci occorra sempre un’autorizzazione. Conosciamo tutti il senso di colpa degli adolescenti quando devono autorizzarsi da soli.

Per ciò che mi concerne mi sono concentrato molto sulla questione del senso antinomico, di ciò che Freud chiama le parole primitive. Questo senso antinomico è molto presente in alcune lingue e in particolare nella lingua araba. Non sono uno specialista di lingue semitiche ma l’arabo è una lingua in cui per dire ‘grande’ si dirà volentieri ‘piccolo’, per dire ‘buono’ si dice ‘cattivo’ etc. Mi sono dunque chiesto come mai in una lingua il significato possa essere esattamente l’opposto di ciò che nel campo delle rappresentazioni è percepito. Questo fenomeno rende furiosi i linguisti, perché se in una lingua le parole possono dire il contrario di ciò che si suppone significhino… Immaginate per un momento, che ciò che viene a costituire il significato di una parola  sia proprio l’opposto di ciò che la parola ha dovuto rigettare, per esempio il giusto, che è quello che ha diritto alla rappresentazione. Si suppone che l’ingiusto, sia quello che venga tagliato fuori, che sia aldilà del limite. Ma, a questo punto, ciò che diventa significato della parola giusto può essere proprio ciò che è stato rigettato e dunque è l’ingiusto che diventa il significato.

Dunque per quanto riguarda questo funzionamento del limite nel linguaggio c’è un problema che tutti coloro che hanno uno spirito religioso conoscono bene, basti ricordare qui il problema della nevrosi ossessiva, vale a dire che a voler rigettare ciò che è sporco, i cattivi pensieri, finisco per essere ossessionato da questo significato, ingombro da questo movimento  che in me è il migliore. E tutti sanno che è uno dei problemi classici della sincerità impegnata nell’aspirazione religiosa, vale a dire questo essere ingombrati dal male, di cui non so più come sbarazzarmene. Ciò che dico è banale e come sapete tutti è san Paolo che ha detto che, senza la Legge, io non conoscerei il peccato. Ma vedete che siamo sempre nel funzionamento che direi puro del linguaggio.

Allora, direi visto che siamo in Italia e a Napoli, che è stata una città greca prima di essere sottomessa a Roma, nell’antichità abbiamo traccia di nevrosi ossessiva? Ci sono scritti dell’antichità che testimoniano di nevrosi ossessive nell’antichità?

Abbiamo certamente tracce che testimoniano dell’isteria come io descrivo in un bellissimo libro che vi consiglio. 2500 anni prima di Gesù abbiamo dei papiri di medici egiziani che dicono che delle donne hanno una malattia particolare, che può tradursi in male alle gambe, poi può salire al ventre, raggiungere i polmoni, colpire il cuore, stringere con una morsa la gola, e tutte le manifestazioni somatiche sono legate alla stessa causa: all’utero. Siccome esso si è seccato, perché tale malattia si osserva nelle vergini e nelle vedove, allora l’utero, poiché non è bagnato, diventa leggero, sale nel corpo e arriva in gola e la strangola.

Vedete subito [qual è] il trattamento semplice raccomandato da questi medici egizi; era un problema [legato] al bagnare: si tratta di bagnare l’utero regolarmente.

Questo ci fa evidentemente ridere.

Ma quando 4500 anni dopo leggete il caso di Dora, che è uno di quei casi meravigliosi su cui resoconta Freud, ed è [un caso] meraviglioso perché Freud è veramente come un conquistatore spagnolo che entra in un terra vergine e scopre un mondo nuovo, qual è il trattamento che raccomanda a Dora?

Dalla sala –  Lo stesso.

Melman – Lo stesso.

Dunque ciò che è magico e formidabile, se ci ricordiamo la formula lacaniana, cioè che “ognuno riceve il proprio messaggio in forma rovesciata”, è che i medici hanno sempre ricevuto dall’isterica lo stesso messaggio. I medici hanno semplicemente rimandato all’isterica il messaggio inviato da lei. L’isterica soffre di non avere un fallo. Evidentemente l’obiezione facile è che l’isterica può avere relazioni stabili ed essere sposata, ma ciò non impedisce che possa essere isterica.  Ma questo vuol dire che nella sua domanda di fallo si tratta di averlo non solo in quanto donna, ma di averlo al pari di un uomo. Penso che per quanto riguarda l’archeologia del pensiero umano in rapporto al linguaggio è una cosa meravigliosa scoprire in questi strati archeologici la permanenza di quest’istanza fallica, che è anch’essa un effetto di linguaggio.

Una donna ha diritto a figurare nel campo della rappresentazione? Oppure in quanto vettore del desiderio maschile non deve essere invece rigettata nel Reale? Altrimenti detto bisognerebbe conferirle il diritto di figurare nel campo della rappresentazione, solo a condizione di essere velata?

Lascio per un momento questa domanda per ritornare alla questione della nevrosi ossessiva manifestamente assente nell’antichità. I meravigliosi testi filosofici di quest’epoca a noi pervenuti, che mostrano che gli antichi erano chiaramente più intelligenti di noi, poiché si ponevano tutte le questioni, mentre noi con tutte le nostre certezze non riflettiamo più su di noi, la loro grande questione era cosa è il bene e cosa è il male. Vale a dire che cosa un uomo bene educato, illustrazione della specie umana, deve rigettare. Come sapete, per rispondere a questa domanda c’erano scuole diverse,  e le loro risposte erano differenti. La risposta che dava Platone non era quella degli stoici, degli epicurei, dei sofisti etc. I sofisti erano formidabili insegnavano ad aver ragione di altri, come se dicessero che la sola saggezza nell’esistenza era di conoscere l’ultima parola per aver presa sugli altri, soprattutto nei processi, cioè funzionavano come alcuni oggi vorrebbero che funzionasse la psicanalisi. Come se la psicanalisi avesse sempre l’ultima parola, e potesse avere ragione di tutto. Ma, il problema essenziale in ogni caso è che nell’antichità la questione del bene e del male era aperta, non era collettivamente definita e in particolare la vita sessuale era inscritta nel campo delle rappresentazioni senza essere in alcun modo recisa e rinviata nel reale. Abbiamo testimonianza che la loro vita sessuale era libera senza nulla da nascondere. Questo è un problema che pongo quando mi invitano all’università. I personaggi di un dialogo di Platone si incontrano e discutono tra di loro e funziona così, la mattina due persone si incontrano e uno dice all’altro: “che faccia strana hai stamattina pare che ti sei divertito con il piccolo amichetto” poi per il bere “hai male alla testa, eh?”. Quindi ci si incontrava e si discuteva di problemi con la presenza nel reale, di che cosa? Di ciò che si doveva decidere, e questo c’è nei dialoghi di Platone, di ciò che doveva essere il bene e il male.

C’è in psicanalisi un concetto che incontrate spesso, la castrazione e noi apprendiamo che l’accesso alla normalità passa per la castrazione simbolica. Ma cosa vuol dire? Si organizza tutto ciò intorno all’Edipo, ovvero che il bambino deve rinunciare all’oggetto per lui più caro è questo la castrazione, ma molto più complicato perché nella nostra vita sociale il bambino deve escludere, tagliar via tutto ciò che è del sessuale per rigettarlo nel reale e tutta la vita sessuale adulta deve farsi nell’oscurità e nel silenzio, comprendendo la vita sessuale quando ci sono dei bambini. È una questione che sembra andare da sé, perché è la nostra, ma non ha sempre funzionato così. Ed è per mostrarvi che se non c’è nevrosi ossessiva nell’antichità è perché ciò che andava rigettato nel reale non era stabilito. Supponiamo che io abbia pensieri aggressivi e violenti, l’eroe romano li affermava, non li nascondeva e il fatto stesso di affermarli lo rendeva un eroe.

Quindi vedete che torniamo sempre alla questione del limite di ciò che è da rigettare prima che per noi decidesse la nostra religione. Ed è questa a decidere ciò che è bene e ciò che è male, con riserve, per questo Lacan dirà che i dieci comandamenti sono solo leggi della parola. La nostra religione è una religione rivelata, ovvero che fonda la propria autorità sulla parola divina, ma ciò che Lacan fa osservare è che questa rivelazione non è indispensabile affinché le leggi della parola, vale a dire le leggi del discorso, portino alle stesse conseguenze, alle stesse conclusioni.

Si incontra in Lacan il concetto di discorso ma cos’è? C’è qualcuno che mi vuole aiutare? S1-S2, $, a, avete capito cos’è? In primo luogo il concetto di discorso vuol dire che affinché tra simili ci si possa riconoscere occorre che tra noi due ci sia qualcosa di comune che è stato perduto, ovvero un limite comune che entrambi riconosciamo, questo fa sì che possiamo parlare della stessa cosa, ma anche che ci riconosciamo come simili, perché fra noi c’è una perdita comune e per andare subito alla fine di quest’immagine diremo che è precisamente l’oggetto più caro che il complesso di Edipo rappresenta con la madre, siamo entrambi marcati dalla perdita dell’oggetto più caro e di cui la psicanalisi mostra che la concettualizzazione attraverso il mito di Edipo  maschera ciò che nella realtà è perduto tra di noi, è questa lettera di cui ho parlato prima in relazione al seminario sulla lettera rubata. C’è un oggetto essenziale un  “più di godere”, cioè il più di godimento lasciato dalle rappresentazioni, c’è tra noi due un oggetto perduto di cui la psicanalisi mostra che è una lettera, e dunque l’uno e l’altro viviamo nella nostalgia di questo più di godimento, un più di godere rispetto a questa banale, normale rappresentazione.  Se è vero che un significante rinvia, non ad un oggetto, ma ad un altro significante, come dice De Saussure, è evidente che ciò che è preso di mira con il significante, l’oggetto preso di mira sfugge, visto che ho a che fare solo con il significante, ovvero con ciò che può servire da supporto alla rappresentazione. Alla rappresentazione di cosa? Nella misura in cui un significante sia rappresentato solo presso un altro significante, fa sì che nasca una dimensione estranea a quella dell’animale che conosce solo il bisogno. Nell’uomo c’è il desiderio che non ha a che fare con il bisogno. Il bisogno può essere soddisfatto, ma il desiderio, anche se soddisfatto, resta aperto su un’insoddisfazione fondatrice, vale a dire quella dell’oggetto che il significante non può raggiungere e nella misura in cui abbiamo visto che l’entrata in funzione del significante implica la caduta della lettera, è la lettera che diviene il supporto di questo più di godere che mi manca. L’inconscio è fatto solo di queste lettere rigettate nel reale e conosco l’inconscio solo per l’irruzione nella mia parola  conscia della lettera che viene a dire la realtà del mio desiderio. Anche questo non sappiamo, noi siamo gli uni e gli altri in uno stato di sottomissione e di dipendenza assoluti nei confronti della lettera e dei testi.

L’anno scorso c’era in una città del Marocco, Fez, un tempo capitale, credo che sia stata una delle prime Università del mondo, come ogni anno, un festival di musica sacra di spiritualità, che si prefigge di riunire per il tramite della musica le diverse religioni. Gli organizzatori hanno ritenuto di invitarmi anche se non sono un musicista. Ciò che ho cercato di spiegare lì, in questo paese musulmano, era quanto era grande il nostro amore per i testi e come ne possiamo diventare schiavi, senza alcuna capacità critica nei loro riguardi. Non so se lo sapete ma non esiste un dizionario storico del Corano. Non c’è analisi linguistica del Corano, non ci si permette una cosa simile. E dunque in qual modo noi siamo innamorati del testo e siccome siamo spesso chiamati ad inventare un senso per scritture che non comprendiamo nemmeno più bene, ebbene se da un punto di vista culturale e politico, questo è possibile perché non riguarda solo la vita religiosa, la nostra vita politica è stata recentemente a sua volta influenzata da testi di pensatori e di uomini politici, ma se questo fenomeno è possibile è perché ciascuno di noi è sottomesso, malgrado se stesso, al testo del proprio inconscio che lo comanda qualunque cosa faccia. Ed è per questo che la psicanalisi ha un ruolo e un posto ed è quello che ci permette di essere divisi rispetto al testo del nostro inconscio di non esservi ciecamente sottomessi ma di avere una certa distanza.

Dunque ritorno a questo, il prezzo pagato nell’antichità dal fatto che esisteva una indecisione su cosa dovesse essere tagliato fuori era che c’era nei riguardi del Reale in quanto abitato dagli dei, un’inquietudine permanente, non c’è bisogno che vi ricordi che non si prendeva una decisone importante senza aver consultato l’oracolo,  ma c’era anche dell’altro ovvero che non si era mai sicuri che il potere della creazione del mondo sussistesse. Quando arrivava l’inverno, chi era che garantiva che la primavera sarebbe arrivata? Si facevano vari sacrifici anche umani perché la primavera tornasse. Insomma si era sempre nell’inquietudine. Il potere della creazione della genesi del sesso poteva sparire per gli antichi. La religione è venuta a guarire questo timore, perché ha posto nel reale un Padre Buono ed Eterno. Buono perché garantisce la permanenza del mondo e della creazione, perché ama la creatura come fosse suo figlio e perché lo autorizza alla sessualità, gli conferisce la sua autorizzazione, ma a condizione che la sessualità sia posta a suo servizio, a servizio del Padre, vale a dire mirata ad ingrandire il gregge, gregge perché evidentemente l’epoca era pastorale.

Dunque noi viviamo con la familiarità speciale con questo Nome, nomen, che rappresenta questo Padre nel reale, e che Lacan reintroduce nel campo della psicanalisi, chiamandolo Nome del Padre, vale a dire colui che garantisce che, a condizione di garantire il limite dei suoi comandamenti, la vita continuerà a sussistere in terra. Il fenomeno della psicosi ci mostra in che modo la difesa dalla sessualità nella misura in cui sarà marcata dal rifiuto di questo Nome del Padre provocherà il togliere di qualunque forma di limite e la produzione della psicosi. La differenza tra nevrosi e psicosi qui è chiara. Il nevrotico si difende dal Nome del Padre ma lo ammette, lo psicotico non si difende perché questo Nome non figura più nel suo mondo dei significanti. È qui la differenza tra nevrosi e psicosi. Per rispondere ad una domanda di ieri la nevrosi ossessiva non è imparentata con la psicosi perché è timore di aver valicato un limite, ma il limite in quanto tale è sempre lì. Se ha paura di aver travalicato il limite, il limite è sempre lì. Voi conoscete il rituale di pulizia nell’ossessivo è evidente che è legato al fatto che essendo stato travalicato il limite, il contatto con l’oggetto escremento è per contaminazione sempre possibile perché vive nell’idea che non c’è stato taglio. E che dunque per contaminazione tutta la catena è insozzata dall’idea che quest’oggetto abbia potuto contaminarlo. Ma questo è un fantasma da ossessivo perché abbiamo appena visto come il concetto del limite è sempre presente nell’ossessivo. Credo che possiamo fermarci per un po’.

 

Dott. Bottone: Vorrei porre una questione che noi abbiamo incontrato nello studio del Seminario III. Lei ha parlato, a proposito dell’antichità, dell’isteria, che i greci già conoscevano ed anche gli egiziani, e ha messo in evidenza il carattere più problematico della nevrosi ossessiva, ma i greci conoscevano anche la follia, la psicosi, la melanconia, la mania la paranoia erano già termini greci. Ora, Lacan in una lezione del III seminario fa una distinzione importante tra il garante nel mondo antico e in quello moderno, facendo riferimento ad Aristotele dice che il garante del reale è il reale che torna sempre allo stesso posto e fa poi un passaggio su Cartesio, dove il garante non è più il reale che torna allo stesso posto, ma è un dio che non inganna. Una delle questioni che ci siamo posti è, allora, cos’è la follia per un greco, perché se il garante per un greco non è lo stesso che per un giudaico-cristiano, allora vuol dire che per un greco la follia non è la stessa cosa che per noi.

 

Melman: C’è una strana cosa, ovvero ci sono voluti venticinque secoli per scrivere una nosografia psichiatrica. Voglio dire che la nostra nosografia attuale si è costituita nel XIX-XX secolo e la questione è di sapere perché siamo arrivati a mancare di mezzi fino a questo punto per descrivere le diverse forme cliniche della psicosi. Oggi tutta questa nosografia è messa da parte dalla nosografia americana, quella del DSM, che conoscete e che analizza solo le turbe del comportamento. Sapete che per il DSM l’isteria è scomparsa, la nevrosi ossessiva si riassume nel DOC, Disturbi Ossessivi Compulsivi, ecc. Mondialmente in quarant’anni il DSM ha cancellato tutta la nosografia classica, per rubricare la psicosi non più in quelle turbe del linguaggio, di cui ho parlato ieri, ma solo nelle turbe del comportamento. È evidente che conosciamo la psicosi nei Greci solo per delle nominazione, senza descrizioni cliniche, facendo eccezione per la melanconia e la mania, ma i greci non avevano costituito una vera nosografia. La sua domanda dott. Bottone, se capisco bene, è come mai c’erano delle psicosi nei greci, visto che non avevano rapporto con il Nome del Padre. A questa domanda possiamo rispondere solo con delle ipotesi, Lei stesso ne ha portata una importante, e cioè che già per i greci il Reale è ciò che torna sempre allo stesso posto ed è per questo che l’osservazione del cielo, con il movimento degli astri aveva la sua importanza. Possiamo avere una risposta su come la psicosi si scatenasse in tale contesto? Non credo che ne abbiamo i mezzi. Non sappiamo come la psicosi si potesse scatenare presso i greci, ma manifestamente non era un problema sociale, ma più un problema d’interesse filosofico, per il fatto che c’erano persone irrazionali, ma non si percepisce una preoccupazione sociale. Invece, oggi si vede nelle nostre società sparire il riferimento al Nome del Padre e qui possiamo valutare più direttamente quali siano le conseguenze che ciò comporta per l’organizzazione psichica. È evidente, almeno è ciò che io racconto ed è che ciò cambia tutto il nostro mondo, siamo in un’epoca del tutto diversa e soprattutto i giovani ci testimoniano che il loro modo di pensare, di vivere e di godere è differente da quello della generazione precedente, tra le due generazioni vi è stato un taglio notevole. Questo vuol dire che per i giovani non è più possibile l’accesso a quello che abbiamo definito castrazione? E che per loro tutti i godimenti siano possibili? Delle volte questa è l’impressione che se ne ricava. Sembra che non ci sia più censura tanto nella loro identificazione, quanto nella scelta d’oggetto e nel rapporto con la sessualità, che fino ad oggi avviene con una sua propria sacralità. Si ha l’impressione che questa sacralità per i giovani d’oggi sia assente e che il godimento sessuale possa essere un’esperienza al pari d’altre esperienze. Per ciò che riguarda quello che ha ricordato, il reale che torna allo stesso posto, l’impressione è che per questi giovani non ci sia più niente che torni allo stesso posto, ma che si tratti come di una specie di lungo corso segnato da accadimenti, che però non sono accadimenti che commemorano un trauma iniziale. Possiamo dire, allora, che questi giovani sono psicotici? No, non possiamo dirlo, perché? Perché conservano una relazione sociale attiva, la quale è più importante che quella con la generazione precedente. Non si può dire che siano folli così come, invece, noi stessi lo siamo stati e continuiamo ad esserlo. C’è anche un certo  disinvestimento rispetto al testo. Vedete, ci troviamo davanti all’incapacità di capire la follia nell’antichità, per il fatto che non c’era referenza al Nome del Padre, invece per la società attuale possiamo cercare di  valutare gli effetti. Effetti che Lacan, in un certo qual senso, aveva previsto, perché Lacan era veramente bravo, infatti, se studiate i seminari della fine del suo insegnamento, in particolare RSI vedete molto bene come con l’organizzazione del nodo Borromeo a tre anelli[4], vale a dire con la soppressione dell’anello del Nome del Padre, Lacan pensava perfettamente a cosa poteva essere un’organizzazione psichica in cui il nome del Padre fosse forcluso. Ciò colpisce molto e sorprende. Quando vedete l’anello a tre e tutta la proprietà del nodo borromeo, nella quale Lacan si era imbattuto per caso, vedete bene che tutta la sua fatica speculativa era, di come “fare  a meno del nome del Padre  a condizione – diceva lui – di sapersene servire”. Ma che vuol dire questo ”Sapersene servire”? Bisognerebbe avere un’altra giornata per spiegare tutto ciò. Ma vedete che Lacan aveva pensato tutto questo ed era negli anni ’70, ovvero quarant’anni fa. Egli sentiva bene l’evoluzione delle cose e, per quanto mi riguarda, cerco di scrivere la “nuova psicopatologia”[5], su che cosa mi fondo? Mi fondo sull’anello a tre in quanto la psicopatologia attuale mi sembra legata a questo che l’anello del Simbolico si trova staccata dagli altri anelli. Questo vuol dire che c’è un allaccio non più di tipo borromeo del Reale e dell’Immaginario. Lacan diceva che le nevrosi erano legate a questo allaccio di due anelli (R-I). Tutto quello che posso constatare è che quando mi lascio guidare dalla struttura del nodo borromeo, si può descrivere buona parte di ciò che oggi definiamo un sintomo, perché oggi noi non sappiamo più bene cosa sia un sintomo. Per esempio, attualmente in Francia è stata di recente promulgata una legge per cui il transessualismo non è più una malattia, un sintomo, ma è cosiderato qualcosa di assolutamente normale, per cui è possibile esigere ed ottenere dallo Stato il riconoscimento del proprio cambiamento di sesso. Questo è un oltrepassare culturale veramente straordinario.

Ieri lei dott. Bottone ha ricordato la questione dei punti di capitone. A tal proposito, se un significante non fa  che rinviare ad un altro significante, a cosa rinvia un significante se lui fa da un punto di capitone? Cosa possiamo dire a questo riguardo? In primo luogo possiamo fare una prima osservazione, possiamo dire che il nome proprio è un punto di capitone, perché non si presta alla metafora, tranne che per una donna. Quando diciamo tranne per una donna, questo spiega perché è un punto di capitone perché vi lega alla linea ereditaria di cui siete un discendente e dice nello stesso tempo tutte le donne che sono per voi interdette, normalmente non sposate qualcuno del vostro stesso lignaggio. Dunque, nel caso del nome proprio il punto di capitone è qualcosa che vi lega, non ad un oggetto, perché potremmo, come dire, immaginare il tempio familiare, ma viene ad attaccarvi a un buco, a ciò che vi è interdetto.

Mi ricordo di un seminario, non so se Muriel Drazien era presente, in cui Lacan pose la questione di cosa fosse un nome proprio, nel 1965. Pose al pubblico la questione e posso dirvi che nessuno che era là seppe rispondere. Quanti anni occorrono perché qualcosa di così semplice cominci a precisarsi. Il nome proprio è ciò che è identico a se stesso, è un punto fisso. E’ per questo che c’è questa notevole patologia che è l’amnesia di identità. Mi ricordo molto bene quando all’ospedale di Sainte Anne ricevevamo questo tipo di malati. Questi malati stavano bene, nonostante non sapessero niente di loro, quando erano nati, qual era la loro professione, se erano sposati, che famiglia avessero e se l’avessero, ma non erano affatto folli e stavano benissimo. Spesso erano portati dalla polizia perché vagavano per la strada e non sapevano niente di loro, la polizia chiedeva loro la carta d’identità, ma non avevano documenti e non sapevano il loro nome. Ciò che era interessante è che il loro stato d’animo era eccellente, non erano affatto depressi per aver perso la loro identità, stavano benissimo, non erano stupiti e poi avevano ottimi rapporti con gli altri malati, con gli infermieri, cominciavano relazioni amorose, tutto aveva l’aria di funzionare benissimo. Al contrario c’era la rabbia dei medici, perché avevano l’impressione d’avere a che fare con qualcuno che mentiva. Vi racconto questo perché Lacan era affascinato da questi malati, poiché già allora pensava alla possibilità di un funzionamento psichico soddisfacente, con una forclusione del Nome del Padre. Vedete, ha effetto quello che sto dicendo!

Ma non è che esiste solo il cognome, il nome di famiglia, come punto di capitone, c’era, bisogna sottolineare il passato, c’era altro, che era il vostro nome, la vostra identificazione, di uomo o di donna. Se siete un uomo ciò non si presta a metafora, che possa venire a mettere in causa questa identità. Ciò che ci si aspetta da un uomo è che sia identico a se stesso e che, se non è identico a se stesso, è visto molto male o meglio “era” visto molto male. Per una donna è un po’ diverso, perché da una donna ci si aspetta che possa assumere tutti i ruoli, si sa perfettamente come nelle guerre quando gli uomini erano a combattere, era la donna che al lavoro, in fabbrica o in famiglia aveva occupato le funzioni. Vedete bene che il punto di capitone è ciò che viene a fissarvi ad un reale, cioè ad un impossibile. Se siete un uomo si suppone che voi non possiate assumere altra funzione se non quella di essere uomo. Vedete che in questi due esempi, come questi due tipi di identità, cioè quella del nome proprio e quella dell’identità sessuale maschile, è qualcosa che vi fissa ad un reale, cioè a degli interdetti molto precisi ed intangibili. Oggi tutto ciò sta cambiando, ed è un effetto di ciò che dicevamo prima, cioè per il fatto che il nome del Padre non occupa più lo stesso posto e la stessa funzione.

Spesso racconto che l’esercizio dell’autorità politica non viene fatto, nemmeno questo, allo stesso modo di un tempo. Perché? Perché nella nostra cultura a partire dalla religione si sapevano distinguere molto bene due cose: l’autorità ed il potere. L’autorità è l’istanza che fa autorità e figura nel reale. Il potere è ciò che nel campo delle rappresentazione si autorizza a partire dall’agente dell’autorità che è nel reale. È l’imperatore Costantino ad avere capito questo, che per assicurare il suo potere politico occorreva beneficiare del riconoscimento dell’autorità. Abbiamo sempre vissuto secondo questa regola. Per esempio in Inghilterra questa distinzione è assolutamente evidente, fra la distinzione dell’autorità regale e poi l’esercizio del potere da parte dei rappresentanti eletti dal popolo. Oggi in Europa non funziona più così e vedete bene che l’uomo che è al potere  si affranca dal riferimento a qualsiasi forma di autorità. Non si è al potere perché si ha l’autorizzazione e la benedizione dell’autorità, ma perché si è pragmatici, si sa come sbrogliarsela, è un buon bricoleur. È un punto questo che ha effetti nella nostra vita sociale, in Francia è evidente col cambio di presidenza, ma anche negli Stati Uniti, ove il candidato ha sempre fatto riferimento al Padre fondatore, ma si vede bene rispetto all’audience che ha riunito, che egli trae il suo consenso dal consenso plurietnico piuttosto che dal dichiararsi figlio legittimo dei Padri Fondatori, anche se si rifà ad Abramo Lincoln. Bene ho risposto troppo a lungo.

 

Dott. Bottone: Diamo, allora, la parola al pubblico, a chi vuole porre delle domande.

 

Dott.ssa Amalia Mele: Lacan nel 1973 ha parlato del Nome del Padre, che doveva essere anche il titolo di un seminario che non fu, poi, mai tenuto e quindi è passato alla pluralizzazione del Nome del Padre. Questa pluralizzazione del Nome del Padre si lega anche al declino di questo significante del Nome del Padre, sta cambiando il grande Altro, c’è una questione anche di revisione del grande Altro, che porta alla pluralizzazione del Nome del Padre. C’è un cambiamento nella clinica, per un passaggio dalla clinica della forclusione ad una clinica della supplenza o se è una questione meramente teorica, cioè in relazione alla castrazione, cioè che non solo il Nome del Padre può sostenere il soggetto davanti alla castrazione, ma anche altri significanti perché il simbolico non fa distinzione tra i significanti.

 

Melman: Per l’aneddotica, Lacan aveva scelto come referenza per il suo seminario del Nome del Padre l’Antico Testamento, Dante e Joyce. Lo so perchè me lo ha detto.

Ora, perché i Nomi del Padre, al plurale? Ciò che penso e credo che lo abbia detto lui stesso, ma molto dopo, è che i Nomi del Padre sono il Reale, il Simbolico e l’Immaginario. L’uso di questi tre significanti e dei tre anelli legati in modo borromeo è precisamente ciò che…, cerco di dirvelo in maniera corretta, è un punto delicato. Nel Reale ciò che comanda è l’Uno e in particolare l’Uno sessuale, vale a dire il Fallo, o è a, l’oggetto piccolo a. Rispetto agli effetti prodotti la differenza è fondamentale. Perché se a comandare nel Reale è l’Uno fallico siamo per questo stesso fatto, ciò che chiamiamo norme-mâlité, di nuovo il gioco di parole, normalità, ma anche norma maschile, nella misura in cui essa fa scoprire la femminilità e lascia alle donne solo la possibilità di giocare a  fare l’uomo.  Normalità, significa che anche che abbiamo un mondo di guerre e di conflitti, perché se ciascuno deve difendere il proprio valore fallico, ciò può tradursi o nella concorrenza rispetto al simile o nella costituzione di raggruppamenti omogenei, come si è visto nella storia recente, per andare a denunciare l’esistenza dell’Altro. Lacan aveva questa formula divertente e cioè: “non c’è nulla di più terrificante della norme-mâlité”, che è la nostra vita. Se è esatto, invece, che ciò che comanda il nostro mondo è l’oggetto a, vale a dire ciò che è a causa del fantasma, e ciò che non fa testo nell’inconscio, perché nell’inconscio si organizza come testo solo a partire dal significante Uno, chi è l’oggetto a? Il nostro funzionamento non è più strettamente legato alla castrazione, l’oggetto a non è la castrazione. Ciò che Lacan diceva alla fine della sua vita,ne sono rimasto molto colpito, quando l’ho sentito, era che non sapeva più cosa era la castrazione. Devo dire che i suoi allievi si chiedevano cosa volesse dire.

Quando, dunque, riprendete la scrittura del nodo borromeo a tre, vedete che l’unico riferimento fallico che vi è fatto è il “godimento” fallico, ma ciò che è al centro del nodo, vale a dire ciò che è presente sia nell’anello dell’Immaginario che nel Reale è l’oggetto piccolo a. Vedete dunque il tipo di trasformazione radicale che questo comporta. Bisognerebbe proprio misurare nei giovani in che modo tutto questo si possa illustrare. Si è soliti descrivere il comportamento dei nostri giovani in modo puramente deficitario rispetto alle generazioni dei genitori. Non è sicuro che sia puramente deficitario, ma per questo motivo, occorrerebbe che noi psicoanalisti fossimo attenti al modo in cui il loro comportamento attesta un funzionamento differente e in più vedete che i valori classici, vale a dire il narcisismo e i soldi non occupano più lo stesso posto che hanno avuto per le generazioni precedenti, con la questione di quali siano in realtà i loro valori. Allora dobbiamo chiederci cosa sia un valore, perché molto spesso si ha l’impressione che questi funzionino senza porsi la questione di cosa sia il valore, compreso anche il valore della vita. Tra il ’70 e il  ’75, sono passati trent’anni, Lacan in qualche modo scrive tutto questo col suo nodo borromeo, che ci permette di essere un po’ più coerenti con ciò che i giovani ci dicono, e sensibili al fatto che loro comunque mettono in gioco una sorta di tentativo pratico, per riuscire a far sì che la vita sia differente, cosa che a noi non manca di deluderci, perché in quanto genitori siamo convinti di voler trasmettere lo stesso reale, che è il dovere dei genitori.

 

Dott.ssa Fiumanò: [parte della domanda non si sente nella registrazione] Mi è stato chiesto di fare un intervento a Grenoble in un convegno intitolato “variazioni sessuali”, io credendo di non aver ben compreso ho pensato che si intitolasse “deviazioni sessuali”, ma il titolo era “variazioni sessuali”, probabilmente in merito a quanto lei diceva a proposito della legge. Vorrei quindi sapere qual è la posizione più corretta, in che modo dobbiamo porci di fronte a queste mutazioni anche d’ordine culturale. Dire “variazioni” presuppone un senso diverso rispetto a “deviazioni”.

 

Melman: Parlare di devianze vuol dire che ci sia una norma, ma la norma è propria del dovere sessuale, cioè il dovere fallico, di compiere il dovere fallico. È invece chiaro che la semplice scrittura del fantasma, vale a dire che il desiderio in ognuno è agganciato secondo una modalità specifica del singolo, anche se la possibilità funzionale è limitata, resta comunque che il fantasma è singolo, è singolare, resta che questa è un’impresa ideologica, ovvero inscrivere il fantasma di ciascuno sotto la voce devianza perché significa rifiutare che nel singolo ci possa essere un desiderio, che sia singolare e non necessariamente al servizio del fallo. Dunque, lei ha ragione nel dire che parlare di devianza sessuale è un procedimento ideologico. Si può essere della stessa famiglia e dire cose differenti. Penso che Freud, che era abbastanza puritano, non avrebbe accettato questa formulazione. Si può dire che non è opportuno parlare di devianze sessuali. Variazioni sessuali è un po’ equivoco, io direi piuttosto le sessualità o meglio le differenti modalità del rapporto con il sesso.

 

Dott. Bottone: Ringraziamo il dott. Melman per questi due giorni e speriamo di riaverlo a Napoli anche l’anno prossimo.

 


[1] Leo Strauss, Diritto naturale e storia, Edizioni il Melangolo, Genova, 1990 [NdR]

[2] Jacques Lacan,  Il seminario su «La lettera rubata», in Scritti, Einaudi, To, 1966.

 [3] S. Freud, La negazione (1925), in Opere Complete, vol. X, Bollati Boringhieri, To, 1980.

[4]  Nodo borromeo, immagine tratta dal sito dell’ALI, www.freud-lacan.com/articles/article. php?url_article=mdarmon300108

[5] Il riferimento è al testo di Charles Melman, Nouvelle économie psychique – La façon de penser et de jouir aujourd’hui, éres, Paris, 2009.

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