La trasmissione della clinica nella presentazione dei malati
Rosa Armellino
È tradizione ormai consolidata fra gli psicanalisti lacaniani francesi quella di mettere in atto nelle istituzioni psichiatriche un dispositivo legato alla “presentazione dei malati”. Molti analisti dell’ALI e di altri gruppi analitici lavorano ancora oggi utilizzando questo dispositivo che ha finalità d’indagine diagnostica, teorica e terapeutica.
I pazienti a cui viene offerta la possibilità di un incontro unico che viene a interrompere e scandire la durata dell’ospedalizzazione sono pazienti che vengono da istituzioni psichiatriche, presi in carico da una rete psichiatrica, e che spesso hanno avuto diversi ricoveri e trasferimenti da una struttura all’altra. Questi pazienti suscitano nei medici e in coloro che sono coinvolti nel progetto di cura un certo imbarazzo nella gestione, per questo viene loro proposto d’incontrare un analista che è chiamato ad ascoltarli in una situazione diversa, che rompe col tipo di interventi clinici con cui si sono già confrontati nel loro percorso terapeutico. Questi pazienti in difficoltà, che spesso vivono ai margini della società, isolati dalle relazioni sociali, hanno la possibilità d’interrogarsi su ciò che accade loro grazie alla consultazione in ospedale con uno psicanalista. La messa in atto di un dispositivo nuovo rispetto al funzionamento della struttura di cura, anche se nel seno stesso dell’istituzione, può rendere possibile un vero “cambiamento di traiettoria” per questi pazienti, per i quali, come osserva Nicolas Dissez[1], sembrerebbe invece già tutto tracciato, dove non vi sa-rebbe spazio per un’apertura, un sorprendersi per ciò che della propria storia può essere inteso rivolgendosi a qualcuno che ha un ascolto altro, che tiene conto cioè della posizione dell’inconscio. L’effetto sorpresa, se si dà in quest’incontro, può sostenere il paziente a produrre un atto, met-tendo in campo ciò che del soggetto dell’inconscio si manifestava come malessere di cui fino a quel momento era portatore.
La pratica della presentazione dei malati, in Francia, è una prassi storicamente consolidata, basti pensare a Freud che andò a Parigi nel 1885 per seguire le presentazioni delle pazienti isteriche di Charcot e di cui restò colpito al punto da voler tradurre in tedesco una raccolta di presentazioni dello psichiatra francese. Una volta a Vienna, però Freud, preferì sottrarsi al fascino di ciò che le sue pazienti isteriche gli mostravano e accettò di mettersi semplicemente ad ascoltare ciò che avevano da dire. Trasmettere la clinica, significava, quindi, trovare un modo diverso che valorizzasse la parola del paziente e allo stesso tempo il posto di chi era lì per mobilitare, col transfert, un dire che avesse effetti di cura. Il medico, quindi non era più spettatore o maestro del sapere medico che poteva esibirsi nelle sale ospedaliere, ma era incluso nel processo di cura dei malati. Fu così che il racconto dei casi clinici diventò per Freud il modo con cui dare prova di come in un’analisi l’inconscio del paziente, grazie all’analista, può manifestarsi e produrre delle formazioni nuove tali da far sciogliere i nodi sintomatici, oppure chiudersi con la conseguenza di far fallire la cura. Allo stesso tempo la pubblicazione dei casi assegnava al “pubblico” dei lettori, agli studiosi appartenenti alla comunità scientifica il posto di coloro che potevano apprendere da quanto i malati insegnavano loro.
Anche nella formazione di psichiatra di Lacan, la presentazione dei malati ebbe un ruolo importante. Egli assistette dagli anni ’20 -‘30, nell’ospedale Sainte-Anne di Parigi, alle presen-tazioni fatte dal dott. Georges Dumas, che attirarono anche studiosi come C. Lévi-Strauss, R. Aron e J.-P. Sartre e all’Infermeria speciale presso la Prefettura di polizia di Parigi quelle del dott. Gaëtan Gatian de Clérambault, ritenuto da Lacan il “suo unico maestro in psichiatria”. È nel 1953 che Lacan, divenuto analista, decise dopo aver lasciato la SPP (Société Psychanalytique de Paris) che la presentazione dei malati diventasse un’attività d’insegnamento clinico della nuova SFP (Société Française de Psychanalyse). Queste presentazioni si svolgevano all’ospedale Sainte-Anne nei reparti psichiatrici del dott. Delay e Daumezon, la cui frequentazione è ricordata da Lacan nel seminario del ’72 L’étourdit: «non dimentico come [il reparto Henri-Rousselle, all’ospedale Sainte-Anne] mi offra l’opportunità di dare una dimostrazione clinica di quel gioco fra il detto e il dire. Dove, meglio di qui, ho fatto sentire come all’impossibile a dirsi si misuri il reale – nella pratica?[2]».
A differenza di Freud, Lacan fino a un anno dalla sua morte continuò a frequentare e a praticare in ospedale le presentazioni dei malati, dove poteva fare l’esperienza di mettere alla prova la soggettività di coloro che desideravano parlare di sé con un altro e davanti a un pubblico di persone scelte. Questa pratica psichiatrica, però, per quanto apparentemente mantenuta nel suo aspetto formale si rivelava essere il teatro adatto perché qualcosa della verità di questi soggetti potesse espressa, una sorta di scena nella scena del mondo, ove chi di fatto si era messo al riparo, escludendosi dalla vita sociale, poteva riprovare a trovare un suo posto attraverso «una teatra-lizzazione del dire[3]» più che del farsi vedere. La clinica di Lacan è una clinica che partendo dal malato non si presta più al gioco della visione, allo sguardo medico a cui solo farebbe segno ciò che si mostra del corpo malato, ma a quello della parola del malato che si tratta non solo di accogliere ma di spingere affinché tocchi qualcosa del reale, quel «punto vivo», quel «punto d’emergenza dell’essere parlante» che riguarda «il rapporto disturbato con il proprio corpo, che si chiama godimento[4]». L’analista è lì per far sì che qualcosa nell’incontro col malato possa prodursi in quel luogo in cui è un collettivo stesso a essere chiamato in questo lavoro. Oltre all’analista e al malato, il dispositivo implica un terzo che è il “pubblico” presente nella sala, un gruppo di persone interessato ad apprendere dal dire del malato e che fa da testimone a quanto avviene nell’incon-tro. Il sapere già confezionato, sia esso psichiatrico, psicologico o psicanalitico, con cui incasellare con arte i sintomi della malattia, che farebbero segno secondo una certa semeiotica al medico, ma non al paziente, viene messo completamente fuori gioco. La nozione stessa di sintomo, che per essere analizzabile deve includere la presenza dell’analista, cambia, esso non è più un segno che si mostra al medico che ha già un sapere sulla malattia, ma un significante che va articolato con altri significanti e di cui l’analista, occupando il posto del “soggetto supposto sapere”, si fa supporto, poiché entra nel gioco dei significanti. Tale significante, che fa segno del/al soggetto, è una “trovata”, dice Lacan, che può essere isolata solo al «prezzo di una sottomissione intera, anche se avvertita, alle posizioni propriamente soggettive del malato, posizioni che troppo spesso si trattano in modo forzato col ridurle nel dialogo al processo patologico, rinforzando così la difficoltà del penetrarle con una reticenza provocata, ma senza fondamento, nel soggetto[5]».
La presentazione dei malati costituisce, dunque, per Lacan una clinica in presa diretta, un modo di trasmettere la psicanalisi in cui non è il sapere medico che si espone, ma la verità che parla. «La capacità dell’analista, la sua arte il suo saperci fare – osserva Erik Porge – consiste nel mettere lo psicotico nella posizione di far sapere[6]», insomma né più né meno di quello che Schreber aveva insegnato a Freud e a Lacan con le sue Memorie di un nevropatico. Solo che questo processo è messo in atto dal vivo nell’incontro con uno psicanalista, che è lì per conoscere il paziente, non è infatti il suo medico curante, e per avere un colloquio con lui in presenza di un pubblico con il compito di fare da testimone e di presentificare quel lo che è fuori della scena, ove ciò che non è stato simbolizzato viene rigettato. Ora è proprio questo dire, questo sapere dal lato del paziente che nel farsi intendere, non solo da un pubblico, ma da lui stesso può produrre un effetto inconsueto. Questo spazio di parola si fonda sull’istituzione di una struttura ternaria, se non quaternaria, che prevede la messa in funzione di tre posti: l’analista, il malato, il pubblico presente e il contesto ospedaliero e in generale la società che vi partecipano in maniera simbolica. Posti che in alcuni momenti della presentazione possono anche intercambiarsi, quando ad esempio la posizione analitica è tenuta dal pubblico e non dall’analista. Questo è possibile perché questo dispositivo di transfert tiene conto della divisione soggettiva e pertanto della divisione del sapere che non riposa su nessuna certezza, anzi là dove questo sapere si presenta come tale, l’intervento analitico consiste proprio nello scuotere queste certezze ovunque esse si manifestino. L’analista che presenta il malato, per quanto chiamato a ricevere in un contesto ospedaliero, non è diverso dall’analista che riceve un paziente nel suo studio privato, in quanto deve dimenticare il sapere già acquisito per mettersi all’ascolto del dire di colui che gli parla. Nella presentazione anche l’analista insieme al malato calca la scena, entrambi non hanno un copione da recitare, e sono spinti dalla fretta di quell’unico incontro in cui qualcosa, in quello spazio simbolico retto dalle regole dei diversi posti da tenere, possa finalmente mettersi in gioco. Sia l’analista che il malato sono davanti a un pubblico, ed è proprio questo luogo terzo a permettere di ratificare un dire nuovo, un dire del soggetto che va a segno perché ha un effetto di sorpresa su chi lo intende e fa sì che un sapere inedito di quel soggetto, preso nella sua singolarità, possa prodursi.
Nella presentazione clinica l’analista interviene con il suo saperci fare con la lingua, il suo stile, operando con il bisturi adatto a fare quel preciso taglio che permette di evidenziare il “fatto clinico”[7] e intravedere «l’anatomia della mancanza a essere[8]». È grazie a quest’operazione che il soggetto è messo nudo e la struttura del soggetto diviso dal linguaggio essere colta. Operare in questo modo significa rifiutare il desiderio di lasciarsi andare alla commiserazione sociale, all’atteggiamento compassionevole verso il malato che sta lì a compensare narcisisticamente la burocratizzazione della cura, come pure rinunciare all’idea di dover riadattare il malato alla realtà. Queste sovrastrutture non sono altro che un intralcio al lavoro di messa a nudo del soggetto che può mostrare il modo in cui è affetto dal linguaggio.
L’unica realtà a cui il clinico deve interessarsi è la realtà psichica, la quale nello spazio istituito per il colloquio può trovare il luogo adatto per dispiegarsi e dare la possibilità, a chi si presenta per farsi intendere, di accordarvisi. L’analista, per cercare di scovare ciò che tiene il soggetto, si appoggia sulla sua “incomprensione” e fa epoché di ogni conoscenza su ciò che l’altro dice. In tal modo egli mette un limite al sapere, inserisce un vuoto alla catena significante che determina certi soggetti psicotici parassitandoli e sospende la copertura immaginaria che riempie di senso ciò che si manifesta come non simbolizzato e fuori senso: il reale. Solo così il malato può far sapere agli altri ciò che vive come proveniente dal di fuori, pensieri che non riconosce come propri, e che s’impongono nelle allucinazioni e nei deliri.
Quello che Lacan si aspettava dalla presentazione dei malati era una vera messa in questione del sapere analitico e psichiatrico e non la conferma di un sapere costituito. Nel fuori scena, a fine presentazione, il pubblico era invitato a discutere di quanto inteso e a formulare ipotesi diagnostiche a partire dalla nosografia classica, ma ciò non significava che tali referenze dovessero chiudere il discorso, anzi dovevano confrontarsi con la singolarità del caso, perdendo quel carattere di fissità proprio della clinica dello sguardo. Allo stesso modo il pronunciarsi da parte di Lacan sulla struttura soggettiva, psicosi, nevrosi o perversione, non era mai perentorio, ma sul tono della scommessa o del pessimismo in relazione a quanto il malato era riuscito a dire e a cogliere di sé in quel momento nel colloquio. Negli anni ’70 Lacan arriverà a pensare che da tale dispositivo della presentazione dei malati potesse venire fuori una nuova semeiotica non basata sul segno e sullo sguardo, ma sul significante.
Riguardo agli effetti terapeutici sui pazienti, il fatto di parlare in pubblico e quindi alla presenza di un terzo può produrre nel malato la scomparsa o l’attenuazione di certi sintomi non psicotici associati a fenomeni elementari (tic, atti aggressivi, enuresi,…), o con la confessione di un delirio l’attivazione dei processi di elaborazione di un lutto fino a quel momento interrotti. In maniera indiretta, inoltre, i pazienti beneficiano di un modo nuovo di essere percepiti dai medici e dal personale ospedaliero che lo segue, i quali grazie alla partecipazione e al posto occupato in questo dispositivo quaternario hanno visto vacillare il loro modo di considerare il paziente cosiddetto “malato”, fino ad allora identificato principalmente con la diagnosi medica che lo designava.
Del rinnovamento che questo dispositivo analitico apportava anche alla semiotica psichiatrica Lacan ne era ben consapevole, il fatto che qualcun altro, diverso dall’esaminatore, in posizione terza, come lo è quella dell’analista, possa raccogliere il dire di un “malato” significa adoperarsi perché si attui una specie «d’iscrizione, di cristallizzazione dell’ordine della cosa che sarebbe pre-cisamente l’apporto semeiotico… In Scilicet c’è un certo numero di considerazioni su ciò che ne è dei rapporti del significante e del segno, cioè su un certo modo di triangolare questo, qualcosa che era nel mio pensiero quando poco fa ho detto a Daumezon che questo potrebbe avere un rap-porto con ciò che noi stiamo dicendo: di ciò che ne è dell’apporto della psicanalisi alla semeiotica medica[9]». La presentazione dei malati è dunque il modo in cui la struttura soggettiva stessa di un essere parlante può venire alla luce, si presenta e metta al lavoro chi è lì a raccogliere quanto registrato e a produrre un sapere clinico, una teoria. Coi registri di Simbolico, Immaginario e Reale insieme alla teoria dei nodi, punti di riferimento costanti a partire dagli anni ’70, Lacan ha cercato di dare conto di tutto ciò che questi soggetti gli avevano insegnato: dalla rottura degli anelli borromei, per presentare lo spezzarsi delle frasi di Schreber, all’invenzione del “nodo joyciano”, formato da un quarto anello che ripara il nodo borromeo che non tiene, per mostrare come Joyce si fabbrichi un nome per far fronte alla carenza paterna. Immaginare una nuova semeiotica che includa l’analista affinché il soggetto possa cogliersi in ciò che dice, significa pensare un modo diverso di parlare della struttura soggettiva, che non passi per la rappresentazione, per il modello, ma che tenga conto dell’impossibile a dirsi, di ciò che «il nostro pensiero limitato dall’immaginario resiste a immaginare»[10]. I matemi, la formalizzazione, la topologia sono quanto Lacan ha cercato di elaborare nell’arco di tutto il suo insegnamento per trasmetterci un sapere libero che non si faccia ingabbiare dalla completezza del senso, dalla parola del maestro, ma che si dia come scrittura stessa del Reale.
[1] N. Dissez, «Mises au point», in Les Jardin de l’asile. Questions de clinique usitée et inusitée. Journée d’étude, 14-15 janvier 2006, éditions de l’ALI, p. 162.
[2] J. Lacan, «Lo stordito», in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p. 493.
[3] E. Porge, «La présentation de malades», Littoral n° 17, Action du Public dans la psychanalyse, sept. 1985. Paris, Érès.
[4] J. Lacan, …ou pire. Séminaire 1971-1972, Éditions de l’Association Lacanienne International, Publication hors commerce, Paris, 2008, p. 48, traduzione nostra.
[5] J. Lacan, «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 530.
[6] E. Porge, « La présentation de malade: une clinique de la présentation », in Trasmettre la clinique psychanalytique, Ramonville Sainte-Ange, érés, 2005, p. 187
[7] Rimandiamo all’articolo di Marcel Czermak, «Qu’est-ce qu’un fait clinique ? », in Journal français de psychiatrie 2007/3 (n° 30)
[8] François Santurenne, «Façon de faire», in Les Jardin de l’asile, op. cit.,p. 16
[9] « Apport de la psychanalyse à la sémiologie psychiatrique. Textes de Charles Melman et Jacques Lacan », Journal français de psychiatrie 2009/4 (n° 35), p. 41-48. Traduzione nostra.
[10] Marc Darmon, Essais sur la topologie Lacanienne, Éditions de l’Association Lacanienne International , 2004, Paris, p23, traduzione nostra.